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Il comunismo e il 1989: Solidarnosc, Piazza Tienanmen, il muro di Berlino

Verso la fine degli anni Ottanta la grande esplosione sociale iniziata in Unione Sovietica travalicava ormai i confini del grande Paese socialista. In Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania orientale e Bulgaria la riforma intrapresa dal leader russo Michail Gorbaciov impresse una potente accelerazione al processo di rinnovamento. Il primo, significativo risultato lo ottenne il Parlamento ungherese che, con procedura inusitata per una nazione sotto l’egemonia sovietica, riuscì a promulgare una legge per la formazione di partiti indipendenti.

 

Si trattò di un autentico colpo di piccone all’ortodossia comunista. Dopo l’Ungheria, sarà la Polonia a darsi al suo interno un profondo cambiamento politico. Artefice del nuovo corso polacco fu il sindacato “Solidarnosc” che, accrescendo nel 1989 la sua già enorme popolarità, riuscì ad imporre alla guida del suo paese uno dei suoi dirigenti: il giornalista cattolico Mazowiecki. Nel contempo, nella Repubblica Democratica Tedesca la grande crisi esplose verso l’estate, quando decine di migliaia di cittadini (in maggioranza giovani) presero d’assalto la linea di frontiera nel tentativo di raggiungere la Germania Ovest. Il susseguirsi di grandiosi cortei nei quali si scandiva il nome di Gorbaciov e si invocava la libertà, unitamente all’irreversibile paralisi politica che si era ormai impadronita dei dirigenti del regime, permisero l’abbattimento del muro (9 novembre 1989), che da 28 anni divideva la città di Berlino, simboleggiando la guerra fredda tra paesi socialisti e capitalisti. Il sistema totalitario veniva abbattuto in Cecoslovacchia dopo la destituzione del capo di governo Husok, e dopo che altre forze alternative al partito comunista ottennero il riconoscimento. Tra i nuovi dirigenti spiccò il nome di Alexander Dubček, il vecchio leader della “Primavera di Praga”, ovvero del periodo in cui il Paese aveva tentato invano di rinnovarsi. Analogo sommovimento interessò la Bulgaria, dove fu abolita la norma che fissava il ruolo insostituibile del partito-guida. Ma se la clamorosa rivoluzione democratica del 1989 poté attecchire in questi paese in modo sostanzialmente pacifico, non accadde altrettanto in Cina.

 

Nella grande nazione asiatica c'era stata, fin dal 1978, una relativa libertà economica. Erano infatti state create una serie di zone franche, ossia delle regioni (soprattutto lungo la zona costiera) dove i capitali stranieri potevano essere impiegati. Grazie a queste zone economiche speciali il volume del commercio estero cinese aveva conosciuto un incremento apprezzabile. Ciò, d’altronde, aveva innescato una serie di discussioni tra l’apparato di governo e il Partito, che preannunciava una crisi politica di notevole entità e risonanza. Durante la primavera del 1989 gruppi studenteschi dell’università di Pechino occupavano la grande piazza Tienanmen, lanciando slogan e distribuendo volantini inneggianti una politica di riforme. L’agitazione dei ragazzi cinesi ebbe un'eco mondiale, per via della presenza, nella capitale, di numerosi giornalisti convenuti in occasione della visita di Gorbaciov, che poneva fine all’ostilità tra Cina e Unione Sovietica in atto da molti anni. Malgrado i giovani contestatori avessero la solidarietà del segretario del partito comunista Zhao Ziyang, la loro protesta fu soffocata da una durissima repressione. Le alte autorità del Partito e di governo sconfessarono il gesto del leader Ziyang, estromettendolo dalla vita politica e fecero affluire nella piazza delle truppe corazzate, che in breve ebbero ragione degli studenti. Ad oggi rimane imprecisato il numero delle vittime della brutale risposta delle autorità cinesi. Secondo alcune fonti, nella notte tra il 3 e il 4 giugno restarono sul selciato della piazza i corpi di un migliaio di giovani, mentre furono arrestati o costretti alla fuga moltissimi altri. L’apparato governativo si giustificò additando la coraggiosa protesta degli studenti come un atto controrivoluzionario ai danni del Paese.

 

Oltre alla Cina, anche la Romania, sebbene con diverse conseguenze, vide risolversi nel sangue la crisi dell’ideologia comunista. Il sistema rumeno, tuttavia, poteva dirsi più che un regime di ispirazione marxista una sorta di gestione personalista del potere. La feroce dittatura di Nicolae Ceaucescu e della sua famiglia praticava da anni una feroce e sistematica repressione del dissenso, calpestando i più elementari diritti civiliLa sollevazione popolare iniziò nel dicembre 1989 a Timisoara, una cittadina della Transilvania. Causa della rivolta fu la difesa da parte dei cittadini di un coraggioso pastore calvinista, Laszlo Tokes, spesso minacciato per le sue affermazioni contro la dittatura. Malgrado l’inaudita crudeltà della repressione, la rivolta popolare si estese ad altre città, fino a toccare Bucarest. Qui gli insorti riuscirono ad impadronirsi della stazione televisiva e a diffondere le ragioni della loro lotta in tutto il mondo. La sanguinosa battaglia tra le forze dell’ordine e i rivoluzionari culminò con la fucilazione di Ceaucescu e di sua moglie Elena.

Anche la Romania si apprestò, nel crepuscolo di quell’indimenticabile 1989, a cambiare volto. Il sistema dei paesi comunisti europei, creato all’indomani della seconda guerra mondiale, era ormai irrimediabilmente distrutto.