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Aristotele, Metafisica: sostanza, potenza e atto

Aristotele nota che noi usiamo il termine "essere" in molti modi, di solito per predicare qualcosa di qualcos’altro (Socrate è alto, Socrate è là fuori e così via) e distingue dieci categorie, cioè tipi di predicati. Ma è della prima categoria, la sostanza, che sono predicate tutte le altre categorie: la qualità è la qualità di un qualcosa, la quantità è quantità di un qualcosa, etc..
La filosofia prima o metafisica, dunque, che è la scienza dell’essere in quanto essere, si occuperà della sostanza.
La trattazione di Aristotele sulla sostanza è piuttosto complessa, e coinvolge la nozione sotto diversi punti di vista, ma è possibile cogliere il concetto di sostanza facendo appello al senso comune: la sostanza non è l’idea di Socrate, nè le molecole di Socrate nè la sua struttura geometrica, nè gli elementi naturali che compongono il suo corpo. La sostanza di Socrate è Socrate: è un individuo che come tale spiega anche la configurazione che le sue parti assumono, e che è il substrato necessario dei suoi predicati (e che non partecipa, dunque, come voleva Platone, di idee/predicato che gli siano ontologicamente superiori: per Aristotele i predicati sussistono solo grazie al loro substrato). Sostanze sono le piante, gli animali, i corpi celesti e forse gli artefatti.

Una sostanza è un synolon, un insieme di forma e materia, che non possono essere separate, in quanto componenti logiche: nella sfera di bronzo non si può separare la sfera dal bronzo se non con la ragione. Che il bronzo divenga sferico, che la materia assuma una forma, è il risultato di un processo di generazione, un processo di generazione possibile: la materia è potenza, la forma è atto. Il mutamento è l’attuazione di ciò che è potenziale. Aristotele distingue quattro tipi di cause del mutamento: la causa materiale, cioè la materia; la causa formale, cioè la forma; la causa efficiente che determina la connessione di materia e forma; la causa finale, ovvero ciò a cui si mira. Anche la natura per Aristotele persegue obiettivi, con la differenza che in natura l’agente è interno agli oggetti stessi; questa è la teleologia o finalismo di Aristotele: la dottrina per cui le cose tenderebbero a un fine. La natura, per Aristotele, non agisce invano.

Jacopo Nacci, classe 1975, si è laureato in filosofia a Bologna con una tesi dal titolo Il codice della perplessità: pudore e vergogna nell’etica socratica; a Urbino ha poi conseguito il master "Redattori per l’informazione culturale nei media". Ha pubblicato due libri: Tutti carini (Donzelli) e Dreadlock (Zona). Attualmente insegna italiano per stranieri a Pesaro, dove risiede.