3'

"Adelchi" di Manzoni, atto II scena III: analisi del racconto del diacono Martino

In una tragedia come Adelchi, nella quale tutti i personaggi, più o meno per i propri interessi o spinti dalla proprie passioni, si propongono quali interpreti dei Pensieri e della Volontà di Dio, attribuendo con ciò arbitrariamente l’avallo divino ai propri pensieri, un solo altro personaggio, oltre ad Ermengarda e ad Adelchi, si presenta come vero tramite di espressione della misteriosa ed imperscrutabile Volontà di Dio: il diacono Martino.

 

Nel racconto che egli fa a Carlo nella scena III dell’atto II (vv. 167 – 256), si delinea un personaggio che, proprio perché mette tra parentesi il proprio “nome”, cioè si priva di ogni desiderio di autoaffermazione, e si pone al servizio di un valore, di una missione che lo supera e lo giustifica, è messo nelle condizioni di operare davvero secondo la Volontà di Dio. Il diacono Martino infatti trova se stesso proprio nello spogliarsi della propria volontà individuale affidandosi, completamente, a Dio. Il vescovo di Ravenna gli affida una missione: raggiungere Carlo e invocare il soccorso e la difesa per il successore di Pietro. Il Diacono Martino non ha garanzie, non ha indicazioni, può solo confidare in Dio; e così intraprende un cammino che non sa se e come lo porterà a Carlo. Eppure, senza dare voce alle proprie paure o ai propri progetti, “in Dio fidando” (v. 195), inizia il suo viaggio di uomo umile, la cui umiltà però adempie imperscrutabilmente il disegno di Dio. È Dio che ha accecato, nel loro orgoglio, i Longobardi, impedendo loro di scoprire la via per giungere in Francia che rivela a Martino; è Dio che guida il diacono, il quale non si fa scoraggiare dalla parole umane, come quelle del pastore presso cui trova ospitalità durante il suo viaggio e che gli dice che non ci sono strade per superare i monti e giungere in Francia. La natura gli appare ostile, i monti si stagliano all’orizzonte “erti, nudi, tremendi, inabitati/se non da spirti, ed uom mortal giammai/non li varcò” (vv. 184/186); tuttavia è proprio nella natura solitaria, priva di ogni traccia umana, è proprio nei suoni e nelle voci delle realtà naturali che si rivela la vicinanza di Dio all’uomo. Nel momento della massima solitudine, il diacono Martino è in realtà accompagnato dalla Presenza dell’Assoluto. Il suo viaggio si proietta allora su di un piano cosmico: sua guida è il Sole, ai cui ritmi adegua il suo cammino, e suo orizzonte è il cielo. Dopo tre giorni, pieni di fatiche e tuttavia senza che mai il diacono si faccia dalle fatiche sconfiggere, ecco il premio, non per sé, non per un suo bisogno o una sua volontà, ma per la Cristianità tutta, per un piano che imperscrutabilmente si attua nella storia: le tende dei Franchi, la sconfitta dei Longobardi, la salvezza del Papa.

 

Nella natura dunque, cioè al di fuori della storia, è possibile distinguere l’incomprensibile voce di Dio, così come la distingueranno Ermengarda e Adelchi proprio nel momento in cui la loro vicenda di dolore li chiamerà fuori dalla storia e concederà loro il privilegio dell’impossibilità di agire, unica garanzia di innocenza in un mondo che ormai non dà altre “messe” se non “l’ingiustizia”, come riconosce Adelchi poco prima di morire.