"Enrico IV" di Pirandello: riassunto e analisi del testo

La “prima” teatrale dell’Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’attore Ruggero Ruggeri ad impersonare il protagonista principale, ha luogo la sera del 24 febbraio 1922, presso il teatro Manzoni di Milano; lo spettacolo, di gran successo, è anche una pietra miliare del teatro pirandelliano e della sua intera poetica, dato che porta in scena i grandi temi della maschera, dell’umorismo, dell’identità e del rapporto tra forma e vita, sullo sfondo della contraddittorietà tragicomica della nostra esistenza.
 
Se già dai carteggi pirandelliani emergono chiaramente tutti questi elementi (in una lettera del settembre del 1921 lo scrittore, riferendosi all’Enrico IV, ne parla esplicitamente e a breve distante come di una “tragedia” e di una “commedia”), le stesse tematiche si intersecano e si intrecciano poi con quelle della trilogia metateatrale dell’opera pirandelliana (dai Sei personaggi in cerca d’autore a Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto), senza dimenticare ovviamente la “lanterninosofia” e il cruciale “strappo nel cielo di carta” già evocato da Anselmo Paleari ne Il fu Mattia Pascal. La vicenda di un uomo che da circa vent’anni veste i panni dell’imperatore Enrico IV - prima per vera pazzia, poi per abile inganno per simulare una nuova vita, ed infine per drammatica costrizione - diventa l’emblema del legame pirandelliano tra maschera e realtà. Di più, vuole essere una rappresentazione amara e precisissima dell’uomo moderno; come direbbe il barone Belcredi, riferendosi alla “follia” del protagonista:
 
Non dico che simulasse l'esaltazione. Al contrario, anzi; s'esaltava spesso veramente. Ma potrei giurare, dottore, che si vedeva subito, lui stesso, nell'atto della sua esaltazione, ecco. E credo che questo dovesse avvenirgli per ogni moto più spontaneo. Dico di più: sono certo che doveva soffrirne. Aveva, a volte, scatti di rabbia comicissimi contro se stesso! [...] Perché quella subitanea lucidità di presentazione lo poneva fuori, a un tratto, d'ogni intimità col suo stesso sentimento, che gli appariva - non finto, perché era sincero - ma come qualche cosa a cui dovesse dare lì per lì il valore... che so? d'un atto d'intelligenza, per sopperire a quel calore di sincerità cordiale, che si sentiva mancare. E improvvisava, esagerava, si lasciava andare, ecco, per stordirsi e non vedersi più. Appariva incostante, fatuo e... sì, diciamolo, anche ridicolo, qualche volta.
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Questo nelle immagini è uno degli attori prediletti da Pirandello, Ruggero Ruggeri, nei panni del personaggio di Enrico IV, alla prima mondiale dello spettacolo, la sera del 24 febbraio 1922, al teatro Manzoni di Milano. Lo spettacolo ebbe un successo notevole e duraturo, basti pensare che da quella sera di febbraio fino alla sua morte nel 1953 Ruggeri interpretò il ruolo di Enrico IV per ben 318 volte, ma del resto quel ruolo era stato pensato da Pirandello apposta per lui. Il 21 settembre del 1921, infatti, Pirandello così scriveva all’attore:

 

Le dissi a Roma l'ultima volta che pensavo a qualche cosa per Lei. Ho seguitato a pensarci e ho maturato alla fine la commedia, che mi pare tra le mie più originali: Enrico IV, tragedia in tre atti di Luigi Pirandello.

Incominciamo già ad annotarci che Pirandello definisce qui il suo lavoro "commedia" e poi, solo a poche parole di distanza, enunciando il titolo con una certa formalità retorica, "tragedia": definizione, questa, impegnativa, che Pirandello metterà a titolo in pochissime sue opere e che inevitabilmente porta a confrontare l’Enrico IV con i drammi storici e i classici del teatro – ovviamente, come sempre in Pirandello, il confronto sarà più per contrasti che per analogia. Ma leggiamo un altro pezzetto della lettera al Ruggeri, in cui Pirandello gli dice ancora:

 

Senza falsa modestia, l'argomento mi pare degno di Lei e della potenza della Sua arte. [...] Ma prima di mettermi al lavoro, vorrei che Ella me ne dicesse qualche cosa, se lo approva e Le piace.

È da notare, qui, la considerazione in cui Pirandello tiene l’attore Ruggeri, chiedendogli addirittura il suo suggello per lavorare all’opera. Ma del resto non è strano che Pirandello si rivolga così ad un interprete dei suoi personaggi, se è vero che il suo teatro proprio dai personaggi, dai caratteri, dalle maschere nasce, non dalla trama, non dall’azione. La centralità del personaggio è anzi tale, da renderlo vivo per sé, addirittura autonomo dall’autore: Pirandello lo dichiara esplicitamente, basti pensare al nucleo fondante del suo capolavoro teatrale: Sei personaggi in cerca d’autore. Tra l’altro, anche per uno di quei sei personaggi in cerca d’autore Pirandello aveva pensato all’attore Ruggeri:

 

Ha visto i Sei personaggi in cerca d'autore? - Sapesse che vivo dolore è stato per me non aver potuto dare a Lei [...] questa commedia; non perché in fondo sia scontento dell'interpretazione della compagnia Niccodemi, ma perché m'ero figurato Lei e non Gigetto Almirante nella personificazione della parte del «Padre». Pazienza!

Siamo, come abbiamo detto, nel settembre 1921: Sei personaggi in cerca d’autore era andato in scena per la prima volta nel maggio di quello stesso anno. Cronologicamente, dunque, l’ideazione dell’Enrico IV è molto vicina a quest’altra opera, e di questa vicinanza porta i segni. Tra le tematiche dell’Enrico IV ritroviamo alcuni capisaldi della poetica pirandelliana:

 

le maschere  la follia, intesa sia come apparente malattia - L’Enrico IV del titolo non è l’imperatore tedesco della storia ma è un uomo dei giorni nostri che - pazzo -  ha vissuto per vent’anni credendo d’essere Enrico IV, isolato dalla società e circondato da servitori/attori che assecondano la sua follia.


Ma la follia è intesa anche come strumento rivelatore della reale pazzia che è vivere la vita fissati in maschere di cui non siamo consapevoli:

 

c’è poi la questione dell’identità e l’opposizione forma/vita

 

Ma un altro tema che è ben presente è quello della recitazione stessa, del teatro, un teatro che però non è sempre e solo forma che si oppone alla vita, ma si interseca con essa, vi si sovrappone, ne acquisisce realtà. L’Enrico IV non viene tradizionalmente compreso nella cosiddetta trilogia metateatrale pirandelliana - che oltre al già citato Sei personaggi in cerca d’autore comprende Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto - ma certo il tema del “teatro nel teatro” è ben presente anche in quest’opera, nell’Enrico IV. Tanto è vero che l’atto primo si apre proprio su un gruppo di personaggi che personificano degli attori - sono i servitori/Consiglieri segreti di Enrico IV - e discutono a proposito del ruolo che recitano e della magnifica scenografia in cui tale recita è collocata. Essi, pur con tutto l’apparato di scena di cui sono travestiti e circondati, significativamente si definiscono, ci si permetta l’espressione, personaggi senza autore, forme senza contenuto: “pupazzi appesi al muro, che aspettano qualcuno che li prenda e che li muova così o così e faccia dir loro qualche parola”.

 

Ma, ecco che finalmente, appunto, un giorno, insieme con alcuni nuovi personaggi che bussano alla villa di Enrico IV, arriva anche il contenuto e nasce la tragedia. Ma andiamo con ordine, e prima di raccontare la vicenda che si svolgerà sulla scena è necessario raccontarne l’antefatto, servendoci magari delle parole dello stesso Pirandello nella lettera al Ruggeri che citavamo prima:

 

Dunque, “- Circa venti anni addietro alcuni giovani signori e signore dell'aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una «cavalcata in costume» [...]. Uno di questi signori s'era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile s'era dato la pena e il tormento d'uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva quasi per circa un mese ossessionato.

Sciaguratamente, il giorno della cavalcata, mentre sfilava con la sua dama accanto nel magnifico corteo, per un improvviso adombramento del cavallo, cadde, batté la testa e quando si riebbe dalla forte commozione cerebrale, restò fissato nel personaggio di Enrico IV.

Non ci fu verso di rimuoverlo più da quella fissazione, di fargli lasciare quel costume in cui s'era mascherato: la maschera, con tanta ossessione studiata fino allo scrupolo dei minimi particolari, diventò in lui la persona del grande e tragico Imperatore.
E a questo proposito, si tenga presente che il personaggio viene sempre indicato come Enrico IV, mai con quello che dovrebbe essere il suo nome vero e che dunque non veniamo mai a sapere.

In ogni caso, nel momento in cui ha inizio la tragedia sono passati vent'anni dalla cavalcata in maschera. Ora egli - Enrico IV


“Ha quasi cinquant'anni. Ma il tempo, per lui (per la sua maschera, che è la sua stessa persona) non è più passato ai suoi occhi e nel suo sentimento: s'è fissato con lui, il tempo. Egli, già vecchio, è sempre il giovine Enrico IV della cavalcata.”

Ecco che dunque, invece che dramma storico, questa tragedia è definibile come dramma della storia, del tempo che passa e che al contempo rimane fissato nell’atemporalità. Nella descrizione che Pirandello fa della scenografia, include per la sala del trono due grandi ritratti che si immaginano fatti in occasione della tragica mascherata in costume: quello di Enrico IV e quello della donna che allora era la sua dama, Donna Matilde, e che interpretava la Marchesa di Toscana, quella di Canossa. Ma per Enrico IV questi non sono quadri.

 

Immagini, sono. Immagini, come... Ecco, come le potrebbe ridare uno specchio, mi spiego? Là, quella (indica il ritratto di Enrico IV) rappresenta lui, vivo com’è, in questa sala del trono, che è anch’essa come come dev’essere, secondo lo stile dell’epoca. [...] Ebbene, lì, è come se ci fossero due specchi, che ridanno immagini vive [...].

Beh, potevano forse mancare gli specchi in un’opera pirandelliana? Comunque, un bel giorno si presentano quindi alla villa cinque persone che pensano di risolvere questo problema della follia di Enrico IV proprio con uno stratagemma che gli provochi violentemente la sensazione della distanza del tempo. Questi nuovi personaggi che entrano sulla scena sono:

 

- La Marchesa Matilde Spina, la donna amata a suo tempo da quello che è oggi Enrico IV
- Sua figlia Frida, somigliantissima a lei da giovane
- Il giovane Marchese Carlo di Nolli, nipote di Enrico IV e fidanzato di Frida
- il Barone Tito Belcredi, vecchio rivale di Enrico IV, responsabile della sua caduta da cavallo e amante della marchesa Matilde
- il Dottore Dionisio Genoni, un medico alienista.

 

L’espediente che il medico escogita è quello di sostituire le figure dei ritratti posti nella sala del trono con personaggi veri e giovani – la giovane Frida e il di Nolli – e poi metterli a confronto con i personaggi originali del quadro, in particolare la marchesa Matilde. Questo confronto, mostrando il tempo che è passato, dovrebbe provocare in Enrico IV uno shock tale, da risolvere la sua pazzia. Con l’arrivo di questi personaggi, il loro incontro con Enrico IV mascherati da personaggi storici, il tentativo di fare i conti con la sua pazzia e di mettere in atto il piano di guarigione, si dipana dunque la tragedia, e come dice Pirandello al Ruggeri:

 

“avvengono cose veramente imprevedibili, se Ella pensa che colui che tutti credono pazzo, in realtà da anni non è più pazzo ma simula filosoficamente la pazzia per ridersi entro di sé degli altri che lo credono pazzo e perché si piace in quella carnevalesca rappresentazione che dà a sé e agli altri della sua «imperialità»” [...];

Enrico IV, quindi, non è, o non è solo, pazzo ma è anche il “grande Mascherato”, come viene definito in una nota di regia delle didascalie. Del resto, anche prima dell’incidente della cavalcata, costui aveva sempre avuto una grande propensione alla recitazione, come racconta il barone Belcredi al dottor Genoni nel momento dell’anamnesi della pazzia di Enrico IV. Ma, attenzione, Belcredi aggiunge anche altro, di lui:

 

Non dico che simulasse l'esaltazione. Al contrario, anzi; s'esaltava spesso veramente. Ma potrei giurare, dottore, che si vedeva subito, lui stesso, nell'atto della sua esaltazione, ecco.

E poi precisa ancora:


quella subitanea lucidità di presentazione lo poneva fuori, a un tratto, d'ogni intimità col suo stesso sentimento, che gli appariva - non finto, perché era sincero - ma come qualche cosa a cui dovesse dare lì per lì il valore... che so? d'un atto d'intelligenza, per sopperire a quel calore di sincerità cordiale, che si sentiva mancare. E improvvisava, esagerava, si lasciava andare, ecco, per stordirsi e non vedersi più.

È fin troppo facile accostare questo passo a quello della celebre teoria dello "strappo nel cielo di carta", enunciata dall’Anselmo Paleari - alias Pirandello - del Fu Mattia Pascal. La richiamiamo brevemente:

 

Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe?
Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

L’Enrico IV, l’abbiamo detto, è definito da Pirandello una tragedia. Ma Enrico IV è un eroe tragico moderno, amletico, consapevole degli strappi nel cielo di carta. Ma la vendetta, attenzione, non gli rimane comunque estranea. Infatti, quando a sua insaputa, è messo in opera il trucco del medico alienista, lui, finto pazzo, tra spaventosi brividi, crede per un momento d'esser pazzo davvero, rivela ambiguamente la propria finta pazzia, accusa gli altri personaggi dei torti presenti e passati, e infine si vendica, uccidendo con un colpo di spada il barone Belcredi. La sua finzione di pazzia è diventata così nuova vita, in un groviglio inestricabile di maschere e realtà. La Marchesa grida che è pazzo, gli ultimi urli del barone sono invece l’opposto:

 

“No! Non sei pazzo! Non è pazzo! Non è pazzo!”

Enrico IV rimane esterrefatto dalla vita della sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto. Dice: “Ora sì... per forza... qua insieme, qua insieme... e per sempre!” La follia, prima subita, poi scelta, ora impostasi, diventa dunque condizione permanente, per forza, e con essa l’isolamento dalla società e anche dal tempo: per sempre Enrico IV, per sempre nel 1100.