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Il signoraggio bancario

Il signoraggio è il reddito ottenuto dagli Stati quando questi attribuiscono alle monete un potere d'acquisto superiore a quello del metallo con cui sono coniate.

Signoraggio, letteralmente aggio del signore, significa il “guadagno del sovrano”. La pratica nacque in epoca romana, quando la moneta iniziò ad essere coniata con una minore quantità di metallo prezioso al suo interno rispetto al suo valore nominale, producendo dunque un reddito per la res publica. La pratica si diffuse in seguito nell’Alto Medioevo, quando i diversi signori feudali iniziarono a battere le proprie monete per affrancarsi finanziariamente dai sovrani.
Facciamo un esempio concreto: consideriamo una moneta dal valore di un euro. Per coniare questa moneta abbiamo bisogno di acquistare il metallo necessario: ipotizziamo che costi $50$ centesimi. A questi aggiungiamo altri $40$ centesimi di costi di conio, cioè manodopera, macchinari eccetera, per un totale di $90$ centesimi. La differenza fra il valore nominale ($1$ euro) e i costi totali di conio ($90$ centesimi) costituisce il signoraggio ($10$ centesimi).
La diffusione delle banconote (il cui costo e e il cui tempo di produzione sono molto minori di quelli delle monete metalliche) e l'imposizione del corso forzoso da parte degli Stati europei, cioè l’impossibilità di cambiare il denaro con il corrispettivo in metallo prezioso presso la Banca Centrale, ha alimentato l’idea che lo Stato controlli in maniera completamente discrezionale la moneta e di conseguenza che il reddito da signoraggio sia una fonte potenzialmente illimitata di guadagno ad uso e consumo della Banca Centrale e dello Stato stesso. Infatti, se lo Stato volesse generare $10$ milioni di euro in più, seguendo il nostro esempio, non dovrebbe fare altro che spendere $90$ milioni di euro per stampare $100$ milioni di nuova moneta, incamerando così $10$ milioni.

Non è così che funziona: i redditi da signoraggio sono irrisori e questo deriva dalla natura stessa dell'offerta di moneta.

L'offerta in termini reali di moneta, dove “termini reali” significa in termini di beni e servizi acquistabili e non rispetto al suo valore nominale, è direttamente proporzionale alla quantità di moneta che circola nell'economia e inversamente proporzionale al livello dei prezzi. In altre parole, il valore reale della moneta aumenta in base all’aumento della moneta circolante, mentre diminuisce se i prezzi aumentano.
Se un caffè costasse un euro, potremmo dire che un euro vale come un caffè; se il prezzo del caffè aumentasse a due euro, allora un euro varrebbe mezzo caffè. In questo caso il valore reale dell'euro calerebbe a causa dell‘aumento dei prezzi nonostante il suo valore nominale rimanga invariato. Misurare il valore reale di una moneta vuol dire, in altri termini, misurare il potere d'acquisto della moneta stessa.
Mentre la Banca Centrale può controllare la quantità di moneta introducendo o ritirando denaro dal mercato tramite l'acquisto o la vendita di titoli, essa non può direttamente controllare il livello dei prezzi (può ovviamente provare a farlo indirettamente attraverso l’offerta stessa di moneta).

Stampando moneta aggiuntiva in maniera indiscriminata, la Banca Centrale genera inflazione, cioè fa aumentare i prezzi: questo accade perché la moneta è un'unità di misura oltre che una riserva di valore. 
Torniamo all'esempio del caffé: avevamo ipotizzato che un caffé costasse un euro. Ora immaginiamo di raddoppiare la quantità di moneta in circolazione, pensando in questo modo di creare ricchezza dal nulla per tutta la popolazione. L'offerta di moneta raddoppierebbe, ma il numero di beni e servizi che sono in vendita sul mercato rimarrebbe lo stesso: di conseguenza, il prezzo di questi beni aumenterebbe sensibilmente, perché i venditori saprebbero che i compratori hanno più denaro in tasca.
In altri termini, se si stampa moneta in maniera arbitraria si toglie alla moneta stessa il suo potere di misurare la ricchezza, in quanto i beni da acquistare rimangono costanti e quindi ad ogni moneta corrisponderà una fetta più piccola di beni.

Per bassi tassi di inflazione il reddito da signoraggio sarà alto, ma qualora lo Stato spingesse per stampare ulteriori quantità di moneta per ottenere maggiore reddito da signoraggio, l'aumento dell'inflazione stesso renderebbe minore il reddito da signoraggio in termini reali rendendolo non più profittevole.

Rivediamo questo punto facendo riferimento al grafico seguente: 

 

Partendo dal punto $E$, immaginiamo che lo Stato decida di stampare nuova moneta per beneficiare di reddito da signoraggio: la nuova moneta genererà inflazione e profitti da signoraggio, spostando la situazione al punto $E'$.
Se a questo punto si continua a stampare a moneta, l'inflazione aumenterà ulteriormente. La nuova moneta stampata creerà valore in termini nominali, ma la quantità di beni e servizi che potrà acquistare non varierà, in quanto anche il livello dei prezzi aumenterà di pari passo. Ci troveremo quindi al punto $E''$, dove i profitti reali sono uguali a quelli del punto iniziale, ma l'inflazione è maggiore. Lo Stato non beneficerà quindi di reddito da signoraggio in termini reali, ma avrà semplicemente alzato il livello dei prezzi.

L'inflazione costituisce il freno naturale all'utilizzo del signoraggio come fonte rilevante di reddito da parte dello Stato. Infatti un ricorso eccessivo ed indiscriminato al signoraggio rischia di generare iperinflazione, destabilizzando gravemente l'economia di uno Stato.
Le Banche Centrali dei principali Paesi (FED per gli USA e BCE per l'UE) hanno peraltro come obiettivo la stabilità dei prezzi, ponendo un ulteriore vincolo all'utilizzo del signoraggio in modo massiccio.

Abbiamo detto che l'inflazione vincola il reddito da signoraggio, ma non vuol dire che questo non esista. Nello specifico, quindi chi beneficia di questo reddito?
L'organo dello Stato responsabile della politica monetaria è la Banca Centrale. Nel caso dell'Italia si tratta della Banca d'Italia, che è un istituto di diritto pubblico i cui azionisti sono una serie di istituti di credito privati.
Pur essendo partecipato da azionisti privati, la Banca d'Italia è un istituto di diritto pubblico e quindi le sue decisioni sono guidate dall'interesse pubblico generale: i suoi azionisti percepiscono alcuni dei profitti dell'attività della banca (fra le quali il reddito da signoraggio) ma senza poter in alcun modo indirizzare le azioni della Banca stessa. La Banca d'Italia è a sua volta membro della Banca Centrale Europea, fondata nel 1998 grazie al trattato di Maastricht, che dall'adozione dell'Euro come moneta di diversi stati europei si occupa della politica monetaria al posto delle singole banche centrali nazionali.

La BCE ogni anno può decidere se destinare il reddito di signoraggio alla costituzione di un fondo di riserva, da utilizzare in caso di crisi, o distribuirlo tra le banche centrali nazionali. In questo caso, la Banca d'Italia destina la gran parte degli utili allo Stato, una parte a riserva e ripartisce la quota rimanente tra i suoi azionisti: quest’ultima quota non può superare il $10\%$ degli utili conseguiti, come previsto dal regolamento di Banca d'Italia.

Si tratta, è bene precisarlo, di un importo irrisorio. Nel 2006, come si evince dal bilancio disponibile sul suo sito, Banca d'Italia ha conseguito un utile di $134$ milioni di Euro, che peraltro non deriva dal signoraggio, visto che quell'anno la BCE ha destinato tutto il reddito ad esso relativo a riserva. Si tratta di un utile derivante dalla normale attività creditizia (raccolta di risorse presso i risparmiatori e concessioni di prestiti) e dalla gestione dei titoli che la Banca possiede: di questi 134 milioni, circa 80 sono andati allo Stato e circa 54 sono stati accantonati a riserva: agli azionisti privati sono arrivati poco più di 15.000 euro.