Il "fanciullino" di Pascoli: riassunto della poetica

La poetica del "fanciullino" di Giovanni Pascoli: spiegazione e analisi delle opere, a cura di Andrea Cortellessa.
 
Tutte le stagioni della poetica di Pascoli sono riassumibili facendo riferimento ad un unico distico di Virgilio (Ecloga IV): "Sicelides Musae, paulo maiora canamus! | Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae". Da questi due versi, il poeta di San Mauro ricavò gli esergo delle sue raccolte più importanti: da Myricae, esempio di poesia "humilis", che si eleva poco da terra, fino ad arrivare agli Odi e inni (1906), raccolta più emblematica del Pascoli nazionalista, dove troviamo non a caso la parola "Canamus" (cantiamo). In una conferenza sul Sabato del villaggio nel centenario della nascita di Leopardi (1898) Pascoli scrive: "Egli è il poeta a noi più caro, e più poeta e più poetico, perche è il più fanciullo". Tale riflessione si ritrova condensata nei Pensieri sull'arte poetica (1897), il testo più importante per l'elaborazione del suo stile poetico, ripubblicato poi con il nome Il fanciullino (1903). L'infanzia diventa per Pascoli il luogo poetico per eccellenza.
 
Il tema viene ripreso ne Il bove (animale protagonista anche di un ben diverso componimento di Carducci): il poeta si trasfonde nella prospettiva dell'elemento naturale, che disumanizza la voce lirica. E', infatti, l'onomatopea l'orizzonte di ricerca di Pascoli: l'immissione nel linguaggio poetico di un linguaggio non-umano (che trova la massima espressione ne L'assiuolo). L'erudizione classica fa da contrappeso a questa naturalezza, con riferimenti al mito classico e alla lingua latina. Questa compenetrazione di piano pre-grammaticale e post-grammaticale fa sì che venga invece escluso il linguaggio "medio", colloquiale. La poetica del fanciullino è stata per questi motivi associata al Simbolismo, movimento che tuttavia Pascoli non conosceva (nonostante in gioventù avesse tradotto Il Corvo di Edgar Allan Poe). Egli sembra sorpassare addirittura i simbolisti nell'idea di una natura percepita attraverso i suoi piani di immediata verosimiglianza e nel relativo "straniamento".
 
Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa-Tuttolibri.
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È in fondo caratteristico che tutte le stagioni della poetica di Giovanni Pascoli si possano riassumere, facendo riferimento a un unico distico di Virgilio (Ecloga IV): “Sicelides Musae, paulo maiora canamus! | Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae”. Sono i distici in cui si parla della vegetazione; da questi due versi di Virgilio, Pascoli trarrà gli esergo, cioè le citazioni iniziali che aprono le sue raccolte poetiche più importanti.

Il titolo della prima, Myricae (1892), è preso appunto dall’ultima parola di questo distico. Nello stesso anno della pubblicazione del libro, scrive a un amico, Piero Guidi,: “È una poesia quella di Myricae che si eleva poco da terra, una poesia humilis”. Questo distico di Virgilio, in cui si invocano le muse affinché si possa cantare più in alto, si possano cantare argomenti più elevati di quelli che invece riguardano gli arbusti e le umili tamerici, cioè la vegetazione più bassa, quasi rasoterra, rappresenta bene le varie stagioni, epoche della poesia di Pascoli: 

Myricae;I primi poemetti (1897) recheranno in esergo “paulo maiora”, cercando di sollevare un po’ il tono, gli argomenti della poesia;I Canti di Castelvecchio fanno dittico con le Myricae, quindi tornano alla vena più familiare, più quotidiana, più bassa di Pascoli; di nuovo “arbusta iuvant humilesque myricae”;I poemi conviviali (1904), invece, elaborano una poetica del mito e della rilettura in chiave moderna dei grandi miti classici; l’esergo sarà ripreso da questi distico di Virgilio “Non omnis arbusta iuvant”, cioè non tutti possono apprezzare la poesia della vegetazione più umile;Odi e inni (1906), la raccolta più emblematica del Pascoli nazionalista e celebrativo, del Pascoli retorico; semplicemente “canamus”, "cantiamo", finalmente abbiamo raggiunto la statura per un canto adulto. 

È un luogo comune quello di associare la poesia più sincera, genuina e tipica di Pascoli all’età infantile, alla piccolezza, alle piccole cose, quasi a livello rasoterra delle tamerici e degli arbusti. In un saggio su Leopardi, questo poeta con il quale aveva profonde differenze dal punto di vista tecnico in sede più strettamente poetica, in questa conferenza su Il sabato del villaggio in occasione del centenario di Leopardi (1898), Pascoli scrisse: “Egli è il poeta a noi più caro, e più poeta e più poetico, perché è il più fanciullo”: questa tematica della scoperta del fanciullo all’interno dell’uomo adulto, che possa avere quella freschezza di sensazioni, di percezioni tipica dell’età infantile, ripresa con ogni probabilità dagli studi dei primi pedagogisti scientifici della fine dell’Ottocento che Pascoli conosceva, come è stato provato, e che però poteva trovare nella grande poesia romantica, nelle stesse annotazioni di Leopardi, per esempio ne Il discorso di un italiano sulla poesia romantica, si condensano nel 1897 ne I pensieri sull’arte poetica che è appunto il testo più importante per l’elaborazione del linguaggio di Pascoli e soprattutto per l’immagine dell’infanzia come luogo da riscoprire, luogo poetico per eccellenza. Il testo in cui si condensa tutta questa riflessione, Il fanciullino, che poi resterà come una specie di sigla di antonomasia su Pascoli è del 1903 e riassume tutta questa lunga stagione di riflessioni.

Il procedimento più immediato per capire quale sia l’impronta che Pascoli sta dando al linguaggio poetico in questi anni, è leggere una poesia di Myricae: Il bove, che Giovanni Capecchi ha giustamente confrontato con la ben più celebre poesia di Carducci, il maestro e predecessore diretto di Pascoli, che a sua volta aveva cantato il pio bove: “T'amo pio bove; e mite un sentimento | Di vigore e di pace al cor m'infondi, | O che solenne come un monumento | Tu guardi i campi liberi e fecondi, […]”. L’animale che diventa il monumento a se stesso, un emblema, una statua della laboriosità della capacità di vivere la natura nella pienezza. Il bove di Pascoli è completamente diverso: "Al rio sottile, di tra vaghe brume, | guarda il bove, coi grandi occhi”; seguono una serie di immagini viste dalla prospettiva del bove, per esempio “ampie ali aprono immagini grifagne | nell'aria; vanno tacite chimere, | simili a nubi, per il ciel profondo; || il sole immenso, dietro le montagne | cala, altissime: crescono già, nere, | l'ombre più grandi d'un più grande mondo.”

“Un più grande mondo” è il mondo visto dagli occhi del bambino, dagli occhi addirittura dell’animale, cioè il poeta si trasfonde, si compenetra nella prospettiva che non è quella dell’uomo adulto né quella dell’essere umano, bensì di un elemento qualsiasi della natura, come può essere un animale che vaga nei campi. Queste immagini campestri quindi non sono idilli, bozzetti agresti, ma proprio disumanizzazioni della voce lirica; la voce lirica diventa la voce animale, si fa verso animale. In un famoso saggio degli anni ’50, Gianfranco Contini spiegò che uno degli orizzonti di ricerca fondamentali di Pascoli è quello dell’onomatopea, cioè della voce degli animali, dell’immettere all’interno del linguaggio poetico il linguaggio non umano, per esempio quello degli uccelli, come vedremo ne L’assiuolo, una famosa poesia di Myricae. Gli uccelli, considerando la mitologia familiare, psichica e personale di Pascoli (quella del nido), sarà una delle presenze naturali nelle quali questa poetica di Pascoli si trasfonde più felicemente, insieme però a una cultura ed erudizione classica che si sovrappone a questa naturalezza: è come se l’aspetto “pre-grammaticale”, come lo chiamava Contini, e quello post-grammaticale, quello erudito, di poesia postuma, cioè la poesia in latino, i riferimenti continui al mito classico, il riferimento a Virgilio nei titoli dei suoi libri di poesia si compenetrassero insieme, saltando il piano medio, colloquiale, della lingua naturale o comunque della visione naturale delle cose.

In questo, molta critica ha ravvisato una coerenza, una complanarità, una similitudine tra Pascoli e le grandi poetiche europee di quel tempo, cioè le poetiche del Simbolismo; poetiche che trasfondono il piano della realtà in un piano di corrispondenze più o meno immaginarie, di evocazione di mistero ed enigma, di piani che non sono quelli immediatamente visibili. In realtà, Pascoli non conosceva i grandi autori francesi suoi contemporanei, ma in adolescenza aveva, per esempio, tradotto Il corvo di Edgar Allan Poe, questo grande incunabolo romantico della poetica del Simbolismo. Come se avesse trovato la sua via personale al Simbolismo, indipendentemente dai grandi maestri: Rimbaud, Verlaine, Mallarmé. Giacomo Debenedetti, che scrisse molti saggi su Pascoli e dedicò a questo autore un corso universitario, parlava non a caso di “rivoluzione inconsapevole”: Pascoli rivoluziona il linguaggio poetico senza saperlo, semplicemente sviluppando una sua poetica, una sua visione della letteratura, una sua visione del mondo.

C’è di più: in questa poetica del fanciullino sembra sorpassare i simbolisti sul loro stesso terreno, cioè in questa idea di una natura percepita nelle sue categorie immediate, nei suoi piani di immediata verosimiglianza, ma anche di trasposizione su un piano diverso, c’è qualcosa che assomiglia a quello che i grandi teorici del Novecento, i formalisti russi, in particolare Viktor Šklovskij, chiameranno lo “straniamento”. Perché il fanciullino? Perché il fanciullino o l’animale vedono le cose per la prima volta; non hanno la nostra abitudine alla vita, la nostra consuetudine, la nostra assuefazione alla natura e ai fenomeni naturali, ma è come se, nel momento in cui il fanciullino scopre il mondo, in quel momento lo vede per la prima volta, nuovo, come se fosse stato appena creato.