Nietzsche, da "Umano, troppo umano" alla "Gaia scienza"

Se le prime opere di Friedrich Nietzsche (1844-1900), la Nascita della tragedia e Sull'utilità e il danno degli studi storici per la vita, sviluppano in tema del conflitto tra spirito apollineo e spirito dionisiaco nella storia della civiltà occidentale, i successivi lavori del filologo-filosofo accentuano il distaccamento da Arthur Schopenaheur e sanciscono la rottura con il compositore Richard Wagner. Nietzsche è ormai sfiduciato in merito alle possibilità di un “riscatto della vita” attraverso le forme artistiche e quindi la “malattia” della civiltà occidentale dev’essere curata per altra via: l’attacco alla morale e alla metafisica già in Umano, troppo umano (1878) viene condotto per via d’aforismo, moltiplicando e frantumando le prospettive tradizionali dei saperi.
 
Il periodo “illuminista” nietzschiano (con opere quali Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali del 1881 e la celebre Gaia scienza dell’anno successivo) da riflessione critica sulla decadenza occidentale si fa arguto ed incessante razionalismo scientifizzante, come dimostrano le pagine più penetranti di questo periodo. E il pensiero di Nietzsche conferma anche qui la sua originalità: alla metafisica e alla logica socratiche (od “apollinee”) ed al clima cultural-filosofico del Positivismo trionfante, si oppone la prospettiva spregiudicata ed antidogmatica del Freigeist, che smaschera le genealogie delle idee che ormai sono date per acquisite e sedimentate nella visione del mondo collettiva. La volontà di smontare le pretese di conoscenza (e di implicito controllo) della scienza ufficiale insiste allora sulla natura illusoria di queste costruzioni di pensiero (come recita puntualmente l’aforisma 112 della Gaia Scienza) e proclama che la verità è un “errore necessario” alla vita, dovuto ai nostri intimi bisogni.
 
Al mondo esistono allora solo le nostre interpretazioni, secondo un netto rovesciamento del rapporto tra fatti e costruzione di un “senso” condiviso e condivisibile: ogni verità umana è piuttosto intimamente prospettica, secondo un procedimento che Nietzsche applica alla storia del pensiero (e agli stessi filosofi del passato, come lo stesso Socrate, cui in un passaggio il filosofo si confessa debitore). E questa ricerca della verità - inscritta in tutta la filosofia occidentale - rimanda proprio, con sapore beffardo, al “sospetto” già insito nel razionalismo greco (e alla sua invenzione della verità "pura"), che ha i suoi albori nella caverna platonica. E l’aforisma 125 non può che chiudere il ragionamento, proclamando la dissoluzione del principio di ogni verità e la “morte di Dio” come compimento della parabola della civiltà occidentale. Da qui, il nichilismo della fase della maturità nietzschiana e l’accusa al cristianesimo di S. Paolo di aver trasferito nell’aldilà il mondo della ricompensa umana.
 
Jacopo Nacci, classe 1975, si è laureato in filosofia a Bologna con una tesi dal titolo Il codice della perplessità: pudore e vergogna nell’etica socratica; a Urbino ha poi conseguito il master "Redattori per l’informazione culturale nei media". Ha pubblicato due libri: Tutti carini (Donzelli, 1997) e Dreadlock (Zona, 2011). Attualmente insegna italiano per stranieri a Pesaro, dove risiede.