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Kant, "Critica della Ragion Pratica" e "Critica del Giudizio"

Dopo la Critica della ragion pura, Immanuel Kant (1724 - 1804) precisa - tra la Critica della ragion pratica, 1788, e la Critica del Giudizio, 1790 - gli aspetti morali ed estetici del suo sistema filosofico.
 
Nella prima opera, naturale prosecuzione del testo più impegnativo, Kant mette al centro della sua riflessione l’agire morale umano, allontanandosi ancora una volta dal relativismo di Hume: a base del comportamento di tutti gli uomini - da qui, il carattere universale e dal ragionamento kantiano - sta infatti per il filosofo di Königsberg  la famosa “legge morale”. Quest’ultima, come legge a priori, distingue tra “massime” (regole soggettive che noi stessi ci diamo come codici di comportamento) ed “imperativi”, distinti a loro volta in “ipotetici” e “categorici” (ovvero leggi del dovere, oggettivamente necessarie). E la libertà per Kant deriva proprio dall’esistenza di una legge morale, che deve essere l’unico movente autonomo del nostro agire: come uomini, dobbiamo porci come nostro fine (e non come mezzo) l’umanità in generale.
 
Nella sezione intitolata Dialettica della ragion pratica vengono poi definite le idee (o “postulati”) della ragion pratica (l’anima, il mondo, e Dio), che rimandano alle antinomie trattate nella Critica della ragion pura, e che ora permettono a Kant di rielaborare la religione in direzione illuministica. sganciandola però dalla morale (secondo la formula: “Religione nei limiti della ragione”). Le due Critiche trovano poi il loro completamento (e l’accordo di Natura e Libertà) nel “sentimento”, cui s’associa - in base a ciò che Kant teorizza nella Critica del Giudizio - il giudizio riflettente, che per il filosofo non consiste nell’applicazione delle “categorie” ma in una riflessione su oggetti a cui sono già state applicate le categorie. Il nostro soggetto mira a cogliere l’armonia tra le parti degli oggetti in questione. Il giudizio riflettente (che poi il filosofo distingue in estetico e teleologico) non ha dunque struttura concettuale né valore conoscitivo: il “bello” è allora “oggetto di un piacere disinteressato” e si differenzia dal piacevole, dal vero, e dal buono.
 
Jacopo Nacci, classe 1975, si è laureato in filosofia a Bologna con una tesi dal titolo Il codice della perplessità: pudore e vergogna nell’etica socratica; a Urbino ha poi conseguito il master "Redattori per l’informazione culturale nei media". Ha pubblicato due libri: Tutti carini (Donzelli, 1997) e Dreadlock (Zona, 2011). Attualmente insegna italiano per stranieri a Pesaro, dove risiede.