4'

Pietro Bembo, "Prose della volgar lingua": analisi di alcuni estratti

Le Prose della volgar lingua, edite nel 1525 e successivamente nel 1538, si presentano suddivise in tre libri: il primo libro, composto da venti paragrafi, tratta le origini della lingua e i suoi rapporti con il latino e il provenzale, definendo le caratteristiche specifiche del volgare italiano. In questa sezione Bembo espone la tesi della superiorità del fiorentino letterario nell'ambito del dibattito sulla lingua, e ribadisce il concetto dell'imitazione di un modello unico, già espressa in un precedente breve trattato in forma epistolare (per una polemica nata con Giovanni Pico della Mirandola), intitolato De imitatione (1512). Nel paragrafo XIX del primo libro, dopo essersi soffermato sulla maggiore validità dei testi della tradizione, indica nello stile di Petrarca e Boccaccio il modello ideale e mette da parte ogni possibile obiezione circa la loro arcaicità: morti sono i testi di coloro, egli dice, che sono stati dimenticati perché non più letti o perché di nessun sostanziale valore:

 

[…] e molto meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi. Né fie per questo che dire si possa, che noi ragioniamo e scriviamo a’ morti piú che a’ vivi. A’ morti scrivono coloro, le scritture de’ quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que’ tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e cosí le malvagie cose leggono come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chiamare, e quelle scritture altresí, le quali in ogni modo muoiono con le prime carte.

Il secondo libro analizza invece le caratteristiche qualitative dei singoli testi letterari: Bembo espone le sue considerazioni riguardo al concetto di “gravità” e “piacevolezza”, due aspetti fondamentali dello stile, i quali forniscono un criterio di valutazione estetica. Essi sono determinati da aspetti di tipo fonico, ritmico e quantitativo: Cino da Pistoia può essere il modello della composizioni piacevoli, mentre Dante Alighieri di quelle gravi. Petrarca invece rappresenta il giusto equilibrio di entrambe le parti, come esposto nel paragrafo IX:

 

[…] Perciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo ’ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sí come aviene delle composizioni di messer Cino e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. [...] Dove il Petrarca l’una e l’altra di queste parti empié maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli fosse maggior maestro.

Nel paragrafo XVIII dello stesso libro, Bembo descrive un altro importante elemento di valutazione estetica, la “variazione”, che chiarisce in modo più sistematico il ruolo della “gravità” e della “piacevolezza”: il principio della variazione è un generale equilibrio di parti “gravi” e di parti “leggere”, ma più in dettaglio essa rappresenta le specifiche scelte lessicali, sintattiche e retoriche del testo: essa è necessaria per sfuggire la “sazietà”, e cioè la ripetizione monotona che annoia il lettore. Ancora una volta l'esempio positivo è dato da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia:

 

[…] Bene si può questo dire che di quelle, la variazione delle quali nelle prose può capere, gran maestro fu, a fuggirne la sazietà, il Boccaccio nelle sue novelle, il quale, avendo a far loro cento proemi, in modo tutti gli variò, che grazioso diletto danno a chi gli ascolta; senza che in tanti finimenti e rientramenti di ragionari, tra dieci persone fatti, schifare il fastidio non fu poco. Ma della varietà che può entrar nel verso, quanto ne sia stato diligente il Petrarca, estimare piú tosto si può, che isprimere bastevolmente; il quale d’un solo suggetto e materia tante canzoni componendo, ora con una maniera di rimarle, ora con altra, e versi ora interi e quando rotti, e rime quando vicine e quando lontane, e in mille altri modi di varietà, tanto fece e tanto adoperò, che, non che sazietà ne nasca, ma egli non è in tutte loro parte alcuna, la quale con disio e con avidità di leggere ancora piú oltra non ci lasci.