Manzoni, "Promessi Sposi", capitolo 33: riassunto e commento de "La vigna di Renzo"

Lettura e analisi di un brano scelto del capitolo XXXIII dei "Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni, a cura di Alessandro Mazzini.

Nel capitolo trentatrè viene descritta la vigna di Renzo, abbandonata da tempo e priva di cure. Questo passo costituisce un'allegoria-chiave per l'interpretazione di uno dei significati fondamentali del romanzo, cioè l'illustrazione della tematica legata alla Provvidenza. Il narratore stesso indica la necessità di un'interpretazione allegorica di questa descrizione, in quanto essa non corrisponde allo sguardo di Renzo, che non dedica molta attenzione alla vigna.

L'autore, sfruttando le sue conoscenze botaniche, con estrema precisione e un lessico tecnico definisce le piante che sono cresciute nel piccolo vigneto di Renzo. Questa descrizione suggerisce un senso di caoticità e di esplosione vitale della natura, che, abbandonata a se stessa, rivela aspetti estremamente inquietanti e minacciosi. Manzoni manifesta una certa paura del disordine e dell'istinto, e sembra mostrare con la descrizione della vigna come la natura nell'incuria riveli il volto spaventoso e orribile dell'esistenza.

Disordine e caos che Renzo ritroverà a Milano, devastata dalla peste, in cui sono venute meno tutte le mediazioni civili, rivelando la vera natura umana, quando è abbandonata a se stessa. Ma questo stato di confusione dato dalla peste viene riconosciuto da Manzoni come proprio della civiltà e della società. La dimensione caotica dell'umano, per l'autore, deve essere illuminata da una prospettiva che non può non venire dall'alto, quindi dalla Provvidenza. Questa dimensione, tuttavia, seppur guidata e ordinata, non perde la sua problematicità.

La descrizione della vigna mette in luce il caos e il tentativo di dominarlo nella "furia nomenclatoria" di Manzoni. La natura offre una prospettiva distorta della realtà per mostrare il fondo inquietante e spaventoso, che si palesa agli uomini nella considerazione della società e in quella della Storia. La Provvidenza, nei "Promessi Sposi", è portatrice di una profonda problematica: la presenza di Dio non si manifesta nei segni esteriori della realtà, caratterizzata dal caos e dal disordine.
A questo "guazzabuglio" si può contrapporre soltanto una determinazione umana illuminata da una problematica coscienza religiosa, aspetto che si ritrova in un'altra pagina del romanzo, ovvero nel brano dedicato alla madre di Cecilia.

Alessandro Mazzini è professore di Greco e Latino presso il Liceo Classico Manzoni. Si è laureato in Letteratura Greca con il professore Dario Del Corno presso L'Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con riviste di divulgazione culturale e ha insegnato per 10 anni Lingua e Letteratura Italiana e Lingua e Letteratura Greca presso il Liceo della Scuola Svizzera di Milano. Dal 2001 è ordinario di Italiano e Latino nei Licei e dal 2003 ordinario di Greco e Latino al Liceo Classico.

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Nel capitolo 33 dei Promessi Sposi il passo relativo alla vigna di Renzo costituisce un'allegoria-chiave per l'interpretazione di uno dei significati fondamentali del romanzo, e cioè per quello che riguarda l'illustrazione della tematica legata alla Provvidenza ed alla prospettiva divina. Che si tratti di un’allegoria e che quindi sia un passo che venga considerato nella sua specificità e con una prospettiva di interpretazione particolare è indicato dal narratore stesso, in quanto quando Renzo arriva a casa sua e scopre l’abbandono - dopo tanto tempo - in cui versa la sua vigna, abbiamo una descrizione di questo luogo nella quale si ha un’insistenza che non corrisponde allo sguardo del personaggio, e che giustifica il passo in questione. Il narratore infatti osserva “e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po' di schizzo.” Quindi in realtà Renzo non dedica particolare attenzione alla descrizione della vigna, diversamente fa Manzoni. Ora come viene descritta questa vigna? Questa vigna è descritta da una parte con un furore nomencatorio, di cui poi avremo prova nella lettura, e nel quale l'autore, sfruttando le sue conoscenze botaniche, con estrema precisione e un lessico tecnico definisce molte delle piante lussureggianti che sono esplose in questa vigna non più oggetto di cure umane. Dall’altra parte questa descrizione suggerisce, come vedremo, anche un senso di caoticità, un senso di esplosione vitale della natura che, abbandonata a se stessa, rivela aspetti estremamente inquietanti. La particolarità del passo quindi consente di toccare in modo evidente una delle prospettive tipiche di lettura dei Promessi Sposi e cioè quella dimensione doppia del messaggio manzoniano, che presuppone da una parte un pubblico più ingenuo, meno colto al quale si rivolgono quegli insegnamenti etici, quelle riflessioni di tematica politica, di tematica economica, insomma un messaggio che si qualifica in termini di positività, di concretezza, di contenuti ben definiti. Ma dall’altra parte c’è anche un secondo livello del discorso manzoniano, un livello più sottile che richiede un lettore più colto, soprattutto un lettore più attento, e che è un livello di lettura in cui in realtà l’autore denota un aspetto di problematicità e di inquietante rapporto della considerazione del reale che lascia spazio a prospettive di un pessimismo profondo e drammatico, che in qualche modo Manzoni cerca di passare sotto silenzio, ma mai di rimuovere, secondo una prospettiva di problematicità che risponde a quel senso di complessità e di mistero, nei tre aspetti che più volte abbiamo sottolineato, legati al mistero ed all’abisso del cuore umano, al caos incomprensibile dei contrasti e dei conflitti all’interno della società e la prospettiva abissale del giudizio di Dio e quindi la prospettiva provvidenziale che - va detto subito - è un provvidenzialismo molto problematico. Qui abbiamo l’immagine di una natura che è abbandonata a se stessa, che mostra un rigoglio, una vitalità minacciosa. Manzoni denota sempre una certa paura del disordine, una certa paura dell'istinto. Sembra mostrare in questa vigna come la natura abbandonata a se stessa mostri il volto inquietante, il volto orribile dell'esistenza. E non è un caso che i termini che vengono utilizzati per la descrizione accanto a quelli tecnici sono anche termini che Manzoni utilizza per la definizione dei comportamenti umani. Non a caso comparirà ancora il termine “guazzabuglio” che è un termine chiave, abbiamo detto in precedenza, quasi tecnico del lessico etico manzoniano al di là dell’apparente semplicità, della banalità e della familiarità del termine colloquiale. Questo passo mostra il volto autentico della natura, che è un volto di sopraffazione, che è un volto di disordine, volto di caos e che si presenta a questo punto come l’allegoria non soltanto di quella realtà che tra poco Renzo verificherà, il disordine in cui è precipitata Milano sotto il devastante flagello della peste, un flagello che in quanto tale ha fatto saltare tutte le mediazioni civili, e che rivela la natura dell’uomo, per quella che è quando essa è abbandonata a se stessa, quando saltano appunto le regole ed il controllo. In effetti Manzoni ha orrore del disordine, come ha avuto modo di evidenziare descrivendo l’assalto ai forni, come quando ha descritto l’assalto alla casa del vicario di provvisione e così come descrive i comportamenti empi, disumani degli uomini quando sono schiacciati, stravolti, dal flagello della peste, anche se come vedremo, non mancano anche esempi di virtù che possono offrire una risposta a questa visione. Quindi la vigna di Renzo come emblema di quel mondo che tra poco Renzo vedrà a Milano, il mondo del caos, il mondo devastato dalla peste e quindi quel mondo che sostanzialmente rivela il suo volto quando la patria della civiltà è stata scossa. Ma a questo punto non è soltato allegoria del mondo flagellato dalla peste, perchè in realtà quello stato che la peste manifesta è uno stato di confusione e di caos che Manzoni riconosce anche all’interno della civiltà quando può stare in piedi, quando non c’è appunto un flagello come quello della peste. Insomma la dimensione caotica e problematica dell'umano, quando esso non è illuminato da una prospettiva che non può che venire dall'alto, e cioè dalla prospettiva religiosa che però non perde la sua problematica. Ma vediamo appunto il passo di cui stiamo parlando: “Si vedevano però ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia” - osserviamo il termine che in realtà è un termine che usa Manzoni per definire i movimenti della massa delle persone - “d'ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso”: qui si vede chiaramente il lessico della sopraffazione che più volte Manzoni usa e per definire la storia e per definire le dinamiche sociali comuni.

 

“Una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l'uva turca, più alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni verde cupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne' calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli, s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per appoggio.”

 

La conclusione della descrizione è una conclusione che mette in evidenza il doppio senso di questo testo: descrizione di un giardino e descrizione di una dinamica umana. E quindi una descrizione che mette in luce il caos e contemporaneamente il tentativo di dominarlo. Questa "furia nomenclatoria" che sembra quasi ricordare pagine di poesia nominalistica alla Dante, sembra quasi ricordare certi aspetti delle Petrose dantesche, quelle petrose che Dante utilizza nell’Inferno proprio ad evidenziare una realtà distorta ed una realtà spaventosa come quella infernale. Ebbene qui  Manzoni utilizza questa lezione per rappresentare questa allegoria che è un’allegoria di più sensi e di estrema problematicità. “Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.” C’è quasi una volontà perversa, una determinata ostilità della natura contro il padrone, quindi contro l’uomo in questo momento rappresentato dalla figura di Renzo. Quindi la vigna offre una prospettiva profondamente distorta, o meglio una prospettiva distorta della realtà per metterne in luce espressivamente il fondo inquietante e spaventoso, che si palesa agli uomini nella considerazione della società e in quella della Storia. E quindi non è certo in ciò che si vede che possa riconoscersi la presenza di Dio. In effetti la Provvidenza, e la possibilità provvidenzialistica certo presente, è però portatrice, nei Promessi Sposi, di una profonda problematica, perchè Dio non si vede nelle cose e il segno di Dio non è negli accadimenti esteriori, perchè gli accadimenti esteriori non presentano mai un miracolo che è sempre un’attesa nella realtà del cuore umano. Il volto esteriore del reale è il volto del caos a cui si può contrapporre soltanto una determinazione umana illuminata da una problematica coscienza religiosa, e sarà questa la lezione che offrirà un'altra pagina famosissima che costituisce la risposta a quella della vigna di Renzo, cioè la pagina dedicata alla madre di Cecilia.