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Primo Levi, "I sommersi e i salvati": riassunto e spiegazione dell'opera

Introduzione

 

I sommersi e i salvati è un saggio di Primo Levi che analizza la tragedia dei Lager nazisti, il ruolo delle vittime e degli aguzzini all’interno dei campi, l’importanza della testimonianza e il rischio che la memoria della persecuzione nazista venga dispersa o, peggio ancora, travisata e negata. Quello di Levi è dunque, come già in Se questo è un uomo 1 e ne La tregua, un rinnovato appello alla memoria dei lettori riguardo alla Shoah: non dimenticare, affinché la Storia non debba ripetersi.

L’opera pubblicata nel 1986, un anno prima del suicidio dello scrittore, è divisa in otto capitoli, preceduti da una Prefazione e seguiti da una Conclusione.

 

Riassunto

 

I sommersi e i salvati si aprono con una citazione da The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), che servono a fotografare l’atteggiamento con cui Levi prova, lucidamente e razionalmente, a rievocare il doloroso ricordo, personale e collettivo, dei campi di sterminio di Auschwitz:

Since then, at an uncertain hour,
that agony returns:
and till my ghastly tale is told
this heart within me burns 2

Il ricordo, quasi una “agonia”, è quello di un “racconto agghiacciante”; tanto più se, come Levi chiarisce nella Prefazione, sono sempre più le voci che si alzano per negare o smentire i racconti dei reduci, quasi replicando il disegno nazista che, sul finire della Seconda guerra mondiale, iniziò la sistematica distruzione di tutto il materiale che poteva provare l’esistenza dei campi e il disegno della “soluzione finale” alla question ebraica. Per Levi, il rischio dell’oblio è particolarmente forte in relazione alle nuove generazioni.

Così il primo capitolo (La memoria dell’offesa) indaga lo strumento della memoria, che per Levi è “meraviglioso ma fallace”, perché viene implicitamente condizionata da ciò che avviene in seguito: gli aguzzini del campo possono così tentare di giustificare i loro comportamenti come frutto di un disegno più grande, di cui loro erano semplici ingranaggi incolpevoli. Una distorsione speculare della memoria è anche quella delle vittime del Nazismo: spesso, per nascondere un dolore troppo grande, i sopravvissuti al Lager (i “salvati”) si sono costruiti una sorta di memoria fittizia. Nel secondo capitolo (La zona grigia) Levi allora approfondisce la natura del disegno di sterminio hitleriano, soprattutto negli ultimi drammatici mesi di guerra: l’obiettivo è quello della distruzione non solo fisica ma anche psicologica degli internati. Da qui la serie di violenze insensate e di umiliazioni disumane di cui sono vittime i prigionieri ebrei. La peggiore di tutte per Levi è quella che confina l’essere umano in una condizione di complicità con i suoi stessi carnefici: è il caso dei Sonderkommandos (i gruppi di prigionieri ebrei che si devono occupare della gestione delle camere a gas) e, più in generale, di tutti quei prigionieri privilegiati che, proprio grazie al rapporto con le autorità naziste, hanno avuto salva la vita. La vergogna (capitolo terzo) tratta allora il problema morale della “minoranza anomala” che si è salvata dai campi di sterminio: Levi descrive il tormento morale e il senso di colpa dei “salvati” che, poiché “mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza”, non hanno saputo o potuto aiutare tutti gli altri prigionieri. La pena di questi “salvati” non sarà però minore nel resto della loro esistenza, tanto che in molti sceglieranno la via del suicidio.

Il capitolo quarto (Comunicare) affronta una questione solo apparentemente secondaria: quella della lingua. La gran parte dei prigionieri del campo vive infatti nella condizione assurda di non comprendere gli ordini delle guardie, non conoscendo il tedesco. Questa condizione umilia ulteriormente i prigionieri, privandoli della facoltà di relazionarsi con il mondo, venendo privati del loro stesso pensiero. levi analizza poi la particolare lingua del campo di concentramento, che è una sorta di degenerato dialetto tedesco. Nel quinto capitolo (Violenza inutile) lo scrittore affronta il fondamentale tema della violenza nei confronti dei detenuti: essa appare agli occhi di Levi tanto inutile quanto umiliante, e finalizzata solo alla completa distruzione psicofisica dell’internato attraverso le leggi del campo (il taglio dei capelli, la sottrazione degli oggetti personali, l’obbligo delle marce e il rispetto meticoloso degli orari). A ciò s’aggiunge la pratica degli esperimenti medici sui detenuti, che rappresentano l’esempio più estremo di alienazione e disumanizzazione. L’intellettuale ad Auschwitz (capitolo sesto), prendendo spunto dalla figura di Jean Amery (pseudonimo di Hans Mayer), affronta invece la questione della dura vita di un intellettuale all’interno di un campo di concentramento, dove egli vede miseramente crollare tutti i valori in cui aveva sempre creduto.

Gli ultimi due capitoli (Stereotipi e Lettere di tedeschi) affrontano rispettivamente alcuni falsi miti sul mondo di Auschwitz (come la possibilità di fuga dal campo) e la questione della valutazione a posteriori di quello che è successo in Germania durante gli anni del Nazismo. Per Levi il rischio è sempre quello che la distanza temporale che si frappone tra noi e gli eventi descritti nei suoi libri offuschi la percezione di ciò che è successo e quindi ci porti a dimenticare con troppa leggerezza. Completa il quadro la corrispondenza dell’autore con alcuni cittadini tedeschi dopo la pubblicazione in tedesco di Se questo è un uomo (1961).

 

Commento

 

Nelle pagine de I sommersi e i salvati Levi decide difarci udire la voce anche di chi non è sopravvissuto al nazismo, quella dei "sommersi". Questi ultimi sono coloro che non hanno trovato un modo per restare in vita perché hanno seguito passo per passo le regole della vita del campo; a loro si contrappongono i (pochi) "salvati" che, pur ad un prezzo altissimo, sono tornati vivi alla loro esistenza normale e quotidiana. Levi, annoverandosi tra questi, spiega al lettore comela maggior parte dei "salvati" siano riusciti a vivere perché hanno accettato di abbandonare parte della propria moralità e integrità, riuscendo a divenire "utili" al funzionamento del campo. Da ciò capiamo l’angoscia provata da Levi al momento della liberazione da parte degli alleati, che non viene vissuto con totale gioia, perché porta con sé la vergogna per essere sopravvissuti, e insieme l’onere delle testimonianza di ciò che i sopravvissuti hanno visto.

La forza di questo libro è il coraggio di raccontare l’animo umano in una situazione inedita nella Storia come quella del campo di sterminio. Levi non descrive la spinta alla solidarietà e all’aiuto reciproco da parte degli internati, ma piuttosto presenta la vita del campo secondo la massima mors tua vita mea - "la tua morte è la mia vita", e cioè il cinico principio per cui alla morte di un compagno corrisponde una speranza di salvezza in più per se stessi: la quotidianità dell'incubo, l'assurdità delle leggi del campo in una situazione esistenziale in cui nulla pare avere più norma o valore, la perversità di un microcosmo che pare non avere orizzonti di uscita.

Levi ci spiega quali limiti disumani possa raggiungere una condizione come quella dei prigionieri di un lager, non riferendosi tanto alla ferocia nazista, bensì descrivendo lo stato di degradazione morale e fisica in cui versano i prigionieri: una disumanizzazione tale da togliere significato anche alla morte.

1 Si pensi in particolare al ruolo della poesia proemiale Shemà.

2 Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner, vv. 582-585.