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La “questione romana” e la breccia di Porta Pia

Il valore simbolico di Roma e la questione romana dopo l’Unità

 

L’inclusione di Roma nello Stato italiano è un tema fondamentale nel pensiero patriottico fin dalle origini del Risorgimento. La natura stessa della città, e la sua duplice importanza storica e religiosa, fanno di Roma un problema ineludibile per chiunque militi per un’Italia unita: da un lato l’eredità della grandezza della Roma imperiale è chiamata a far dimenticare secoli di dominazioni straniere in cui gli italiani sono stati “calpesti e derisi”, dall’altro la presenza della sede pontificia pone il problema di come conciliare la conquista della città con la fede cristiana della stragrande maggioranza della popolazione.

La centralità della città eterna nel contesto italiano è un problema inevitabile anche per coloro che non sono ostili al potere temporale della chiesa; basti pensare ai molteplici progetti di matrice neoguelfa in cui lo Stato Pontificio è visto come perno per la futura confederazione italiana ed il cui ruolo di primus inter pares è sancito anche dall’importanza storica di Roma. Il processo risorgimentale, dal punto di vista dell’unificazione territoriale, si può dire che subisca un’accelerazione nella sua parte finale; se infatti la prima metà del XIX secolo non vede alcun cambiamento sostanziale nella carta politica d’Italia, negli anni che vanno dal 1859 al 1867 uno Stato unitario prende rapidamente forma. Il Regno di Sardegna acquisisce la Lombardia, la Toscana e l’Emilia nel ‘59, l’intero Meridione, l’Umbria e le Marche nel ‘60. Il neonato Regno d’Italia, poi, annette il Veneto e parte del Friuli nel ‘67. Il Lazio, rimasto sotto il dominio papale, è ormai una enclave di ancien régime inserita nei territori della monarchia costituzionale italiana. È naturale, dunque, che il nuovo Stato unitario non possa nascondere le proprie mire sulla città eterna, e infatti fin dall’inizio la classe politica italiana dichiara di considerare chiuso il processo unitario solo con l’acquisizione di Roma e lo spostamento in essa degli organi legislativi ed esecutivi. Lo stesso Cavour, pochi mesi prima di morire, aveva con un vibrante discorso indotto il Parlamento a dichiarare Roma capitale d’Italia, anche se come atto meramente simbolico poiché al momento ancora al di fuori dei territori del Regno.

La situazione internazionale, tuttavia, paralizza l’azione ufficiale italiana: Napoleone III, a cui l’opinione pubblica francese non ha ancora perdonato i troppi morti della battaglia di Solferino durante la Seconda guerra di indipendenza, si erge a paladino del papale ed in più occasioni dichiara che non avrebbe accettato un ennesimo esempio di “politica del fatto compiuto” da parte degli italiani. Tutto ciò che il governo sabaudo può fare, a questo punto, è decidere lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, il 3 febbraio 1865, ufficialmente con il pretesto della posizione più centrale e della miglior difendibilità in caso di una nuova guerra con l’Austria, in realtà come esplicito avvicinamento (anche geografico) a una Roma considerata “capitale ideale” ma per il momento irraggiungibile. Se il governo Minghetti ha le mani legate, lo stesso non vale per i democratici (e soprattutto per Garibaldi) che, galvanizzati dal successo militare dell’impresa dei Mille, pensano che un altro colpo di mano possa sorprendere le potenze europee e cancellare il potere temporale della chiesa.

 

L’Aspromonte

 

La nomina di Urbano Rattazzi a Presidente del Consiglio risveglia le speranze di tutti coloro che premono per una soluzione definitiva della “questione romana”: la sua fama di anticlericale e le misure da lui adottate contro il clero negli anni ‘50 lasciano supporre che un governo da lui guidato non ostacolerà un’impresa contro il potere temporale della Chiesa.

Forte di questa convinzione, Giuseppe Garibaldi, ritiratosi a Caprera dopo la conquista del Meridione con l’impresa dei Milla, si imbarca per la Sicilia il 27 giugno 1862. Una volta giunto sull’isola, è accoltoa Marsala da una folla in tripudioed è probabilmente solo in questo momento, che, forte del sostegno della popolazione locale, decide di iniziare a raccogliere volontari per una spedizione su Roma, benché dal punto di vista tattico militare fosse irragionevole partire da un punto così lontano dall’obiettivo. A differenza di due anni prima, tuttavia, l’impresa non nasce da una sollevazione spontanea delle popolazioni che sarebbero state liberate da un oppressore e, soprattutto, la protezione concessa da Napoleone III a Pio IX rende impossibile qualsiasi appoggio, da parte del governo italiano. Il nuovo Stato, oltretutto, è ora in primis impegnato nella repressione della guerriglia scatenata dai “briganti” delle provincie meridionali e non ha le forze né militari né diplomatiche per gestire una nuova, eventuale annessione.

Vittorio Emanuele II, per di più, è profondamente consapevole che l’imperatore dei francesi non solo non è disposto a consentire una spedizione di volontari contro il Papa, ma riterrebbe i Savoia direttamente responsabili di qualsiasi negligenza nella vigilanza e nella repressione. Il sovrano sconfessa quindi qualsiasi tentativo e lo stesso Rattazzi proclama lo stato d’assedio su tutto il territorio nazionale.

Nonostante la sorveglianza della Regia Marina, tuttavia, i volontari di Garibaldi riescono a prendere terra in Calabria, dove, accolti a fucilate dalle truppe italiane, abbandonano la strada principale e si rifugiano sui sentieri del massiccio dell’Aspromonte 1. Sulle loro tracce si pongono i numerosi reggimenti di truppe regolari, in particolare colonne di bersaglieri, già presenti sul territorio perché impegnate nella lotta al brigantaggio.

Il contatto tra i circa millecinquecento volontari garibaldini e le truppe regie avviene il 29 agosto 1862; malgrado la volontà di Garibaldi di evitare a tutti i costi lo scontro con le truppe italiane, iniziano alcune scaramucce tra camicie rosse e bersaglieri e, dopo pochi minuti di scontri, Garibaldi è ferito al malleolo da una fucilata: la battaglia, durata circa dieci minuti, si interrompe istantaneamente 2.

Ferito e prigioniero dell’esercito italiano 3, Garibaldi è rinchiuso nella fortezza ligure del Varignano e viene liberato con un’amnistia il 5 ottobre 1862.

 

La battaglia di Mentana

 

Nonostante la sconfitta e l’ostilità dimostrata dal governo italiano, l’obiettivo di raggiungere e liberare Roma non era stato abbandonato dal movimento garibaldino né dal suo leader. Le condizioni per un secondo tentativo sembrano crearsi cinque anni dopo, al termine della Terza guerra di indipendenza italiana e sull’onda della rinnovata popolarità di Garibaldi, unico generale italiano capace di riportare vittorie nella disastrosa campagna dell’anno precedente. Memore della lezione dell’Aspromonte, questa volta il piano garibaldino prevede un attacco dall’esterno (passando però dalla frontiera pontificia settentrionale) e due distinte iniziative all’interno e all’esterno della capitale. Questi preparativi tuttavia, effettuati in maniera tutt’altro che discreta e addirittura magnificati dalla propaganda democratica, danno tutto il tempo al contingente francese ed alle forze pontificie di preparare le difese. Garibaldi è arrestato in via preventiva dalle autorità italiane ma dopo appena pochi giorni evade da Caprera e, a Firenze, arringa la folla il 17 ottobre inneggiando alla presa di Roma.

Cinque giorni dopo, nella città eterna, due muratori repubblicani, Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, fanno esplodere alcuni barili di polvere da sparo presso la caserma Serristori causando la morte di venticinque zuavi pontifici e due cittadini romani. Nelle intenzioni degli attentatori, questa azione deve dare il via ad una rivolta che spiani la strada all’invasione garibaldina, ma il popolo non si muove, i due esecutori sono arrestati e ghigliottinati pochi giorni dopo presso il Circo Massimo. Il 23 ottobre, una settantina di volontari guidati dai fratelli Enrico e Giovanni Cairoli è sopraffatta dai carabinieri pontifici a Villa Glori, mentre il 24 gli zuavi assaltano il lanificio Aiani a Trastevere trucidando nove patrioti che si erano asserragliati là dentro.

Malgrado il completo fallimento della sollevazione interna, il contingente garibaldino riunito in Toscana entra in territorio pontificio presso Monterotondo ma, muovendosi ancora una volta in maniera lenta ed indecisa, dà il tempo ad un contingente francese di sbarcare a Civitavecchia per sbarrare la strada alla capitale.

I due eserciti entrano in contatto il 3 novembre 1867 presso la località laziale Mentana e, malgrado la sostanziale parità numerica e la posizione vantaggiosa delle camicie rosse, il contingente garibaldino viene annientato con gravi perdite. Un tale esito, tanto rapido quanto indiscutibile è dovuto alla disparità tecnologica tra i due contingenti: i francesi sono infatti equipaggiati col nuovissimo Chassepot, fucile a retrocarica entrato in servizio quello stesso anno che sovrasta per gittata, frequenza e potenza di tiro le tradizionali armi ad avancarica utilizzate dai garibaldini 4.

 

La breccia di Porta Pia

 

Mentana aveva dimostrato che, finché l’Impero francese si fosse impegnato a proteggere il potere dei Papi, non solo alcun corpo di volontari armati alla meglio ma nemmeno il Regno d’Italia e le sue truppe regolari avrebbero avuto la forza di strappare ai pontefici la città di Roma. Questo ostacolo viene improvvisamente meno nel 1870 in conseguenza della situazione politica europea ed in particolare dallo scoppio, nel mese di luglio, della guerra franco prussiana. L’esercito tedesco infligge ai francesi una serie di pesantissime sconfitte e con la battaglia di Sedan, il 6 settembre, lo annienta definitivamente, sancendo la caduta di Napoleone III da imperatore.

Per ciò che interessa la situazione italiana, è evidente che la Francia, senza più un impero e senza ancora una nuova forma di governo, con i prussiani ed i loro alleati che ne occupano una parte del territorio e ne assediano la capitale, non è in condizione, nel settembre 1870, di proteggere alcunché al di fuori dei propri confini. Il governo di Firenze sa bene che è quello il momento di agire e, dopo una lettera di Vittorio Emanuele al Papa in cui si chiede di far entrare truppe sabaude a Roma col pretesto di proteggerlo, un corpo di spedizione passa dall’Umbria allo Stato Pontificio.

Vista l’improduttività delle trattative di resa, la mattina del 20 settembre 1870 il contingente italiano, supportato dall’artiglieria, entra a Roma dopo aver aperto una breccia nelle Mura Aureliane presso Porta Pia 5.

Gli zuavi pontifici non possono che offrire una resistenza solo simbolica. Una volta entrate in città, le truppe italiane hanno il preciso ordine di non occupare la Città Leonina, Castel Sant’Angelo e i colli Vaticano e Gianicolo. Come per gli altri territori annessi al Regno d’Italia, anche i romani sono chiamati a confermare l’unificazione con un plebiscito. Il Papa, dichiaratosi “prigioniero politico del Governo italiano”, si ritira a Castel Sant’Angelo.

 

Roma capitale e le sue conseguenze

 

Se con il 1870 cessa di esistere lo Stato Pontificio, rimane in vita la Santa Sede come entità internazionale; soprattutto, la Chiesa mantiene un potere di condizionamento su una fetta degli italiani tanto vasta da non poter certamente essere ignorata dal nuovo Stato.

Roma diventa ufficialmente la capitale del regno il 3 febbraio 1871 e nel maggio successivo, onde tentare di ripristinare rapporti cordiali con il papato, il governo Lanza vara la legge delle Guarentigie. Con questo provvedimento, l’esecutivo mira a regolare - seppur unilateralmente - il rapporto con il pontefice.

lo Stato italiano si impegna a vegliare sull’inviolabilità della persona del capo della Chiesa ed a considerarlo quale governante di un paese straniero, il nuovo, minuscolo territorio vaticano è difeso da guardie armate dipendenti dal papato (oltre che dall’esercito italiano) e su di esso non si applica la legge del Regno d’Italia. La Santa Sede, inoltre, mantiene intatta la propria rete diplomatica 6 e i membri del clero possono riunirsi sul territorio italiano senza alcuna limitazione (in deroga alle leggi di pubblica sicurezza vigenti per i normali cittadini). La monarchia sabauda rinuncia in via definitiva a qualsiasi ingerenza sulla nomina dei vescovi.

Tali misure, però non possono soddisfare Pio IX, che chiude ogni rapporto con lo Stato italiano e nel 1874, con la formula non expedit (ovvero, in latino, “non conviene”), vieta esplicitamente ai cattolici di prendere parte alla vita pubblica della nazione italiana. Questa disposizione, che mette a rischio la legittimità stessa del regno costituzionale (visto l’alto numero di cattolici nella popolazione) sarà superata solo col Patto Gentiloni del 1913. 

1 È probabile che gli ufficiali di Marina, una volta identificati i piroscafi presi dai volontari, abbiano preferito limitarsi a segnalare alle truppe di terra i punti di sbarco ed evitare uno scontro navale, che avrebbe causato molte più vittime tra le file dei garibaldini.

2 È da notare che la battaglia dell’Aspromonte, benché di assai breve durata, provoca una trentina di morti sul campo ai quali vanno aggiunti alcuni bersaglieri che, infiammati dal carisma del generale nizzardo, abbandonano le loro posizioni per raggiungere i volontari. A causa della loro diserzioni, essi sono immediatamente arrestati e fucilati. L’episodio è anche ricordato dallo scrittore siciliano Tomasi di Lampedusa in una celebre scena de Il Gattopardo.

3 Una ben nota canzonetta infantile che narra della ferita “ad una gamba” di Garibaldi ed ancora oggi molto diffusa nasce nelle settimane successive ai fatti dell’Aspromonte. In senso ironico, il motivetto della canzone è il “Flick - Flock”, ovvero il passo di marcia tipico del corpo dei bersaglieri, che potevano vantare la discutibile gloria di aver fermato il generale simbolo del processo risorgimentale.

4 Mentana è un banco di prova per le nuove armi (che daranno micidiale prova di sé nella successiva guerra franco-prussiana) tanto che è rimasto famoso il commento dell’ufficiale francese De Failly secondo cui contro i garibaldini “les Chassepot ont fait merveilles”.

5 Un aneddoto vuole che, poiché Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco contro Roma, l’ordine d’attacco venga dato dal capitano Giacomo Segre, di religione ebraica.

6 comprendente tanto i “nunzi apostolici” aventi funzione religiosa che gli ambasciatori, con compiti strettamente politici