Le "Novelle per un anno" di Pirandello: analisi critica

Luigi Pirandello pubblica la prima sua prima novella nel 1884, a soli diciassette anni, e l’ultima, Effetti d’un sogno interrotto, nel 1936, anno della morte; in totale saranno 251 i testi brevi dell’autore siciliano. Per spiegare questa lunga fedeltà, oltre all’aspetto economico collegato al gran successo riscosso dallo scrittore su riviste e giornali, bisogna aggiungere la possibilità che l’autore ha di “sperimentare” nelle sue narrazioni brevi soluzioni tecnico-stilistiche e di poetica che poi applicherà sia nei romanzi principali (da Il fu Mattia Pascal a Uno, nessuno e centomila) che nella produzione teatrale.
 
I progetti pirandelliani per riunire la propria produzione sono assai complessi ed articolati (tra il 1894 e il 1919 vengono pubblicati ben 14 volumi di raccolte); il più noto è senza dubbio quello delle Novelle per un anno, annunciato dall’autore stesso in un’intervista al “Messaggero della domenica” che prevede inizialmente “trecentosessantacinque novelle” (l’editore Bemporad ne intraprende la stampa dal 1922, che poi passa a Mondadori, e che infine sommerà 225 testi).
L’Avvertenza che l’autore prepone alle Novelle per un anno si conferma - come già per il Mattia Pascal - un luogo strategico per illustrare al proprio lettore le finalità dell’atto narrativo. L’impegnativo titolo viene commentato con una coppia assai indicativa di aggettivi, che rimandano a due sentimenti contrari (appunto, la modestia e l’ambizione); il titolo stesso richiama poi una tradizione illustre, cui allude la coppia di sostantivi - ancora una volta contrari - “giorni e notti” che si rifanno rispettivamente al Decameron di Boccaccio e la raccolta di novelle orientali Le mille e una notte. Ma il rapporto con la tradizione, in Pirandello, è sempre problematico. Il richiamo al Decameron o Le mille e una notte è “umoristico”, perché da tali opere le Novelle per un anno differiscono per un elemento fondamentale: la mancanza di una cornice narrativa che unifichi e spieghi tutti i frammenti. L’opera pirandelliana, anche nelle Novelle, rimane un labirinto, e non permette un ordine né (tanto meno...) una morale.
 
Il caos dell’esistenza si riflette così nell’immagine - ossessivamente presente - dello specchio, lo strumento umoristico per eccellenza dello sdoppiamento e della frammentazione della realtà, come già scoperto dal Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila. E lo specchio pirandelliano ci restituisce mondi eterogenei, ma sempre dominati dalla legge del sovvertimento e della deformazione: la Sicilia rurale, come ne La giara o Ciaula scopre la luna, è ben lontana dall’analisi verghiana delle dure ed asettiche leggi dell’esistenza, mentre gli ambienti piccolo-borghesi paiono dominati - basti pensare a Il treno ha fischiato o ai racconti ambientati nella Roma degli impiegati - dalle trappole e dai tranelli che si annidano sia nel contesto familiare che nell’insieme dei rapporti socio-economici. E nel mare caotico delle faccende umane, l’operazione pirandelliana non è poi molto distante da quelle di un Mattia Pascal che racconta la propria “assurda” vicenda di “morto in vita”: narrare come “distrazione provvidenziale” all’insensatezza amara del nostro esistere.
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La prima novella, Pirandello la scrisse e pubblicò quando aveva solo 17 anni e continuò a scriverne e pubblicarne praticamente fin sul letto di morte, accumulando così un patrimonio complessivo di ben 251 testi, e dimostrando così una fedeltà al genere che non trova uguali né verso il romanzo né verso il teatro (l’ultima opera drammaturgica, I giganti della montagna, rimase tra l’altro incompiuta).


Il critico Giovanni Macchia ha ben detto che le novelle pirandelliane, “quasi fossero uno di quei trenini che fischiano e trotterellano nelle sue pagine e si fermano a ogni stazione imbucando passeggeri della più diversa estrazione, procedevano regolarmente nel loro viaggio, e, mano a mano che il viaggio continuava, si aprivano nuovi orizzonti”. I critici e gli storici della letteratura si sono dunque interrogati sul perché di questa fedeltà al genere novellistico, e, a parte la questione più prosaica ma certo non indifferente o ineludibile del guadagno economico garantito, hanno messo in luce in particolare l’aspetto di “laboratorio permanente” che la scrittura delle novelle costituisce per Pirandello. In esse infatti egli inventa e sperimenta forme e strutture, prova i suoi personaggi prima di portarli alla ribalta nei romanzi ma soprattutto sul palcoscenico del suo teatro. Delle opere teatrali pirandelliana, sono circa tre quarti quelle che derivano da una o più novelle. Ma prima di arrivare, di confluire in più vasti orizzonti narrativi ed editoriali, dobbiamo precisare che la maggior parte delle novelle inizia il proprio cammino nel mondo con la pubblicazione su riviste e giornali, e tra questi ricordiamo in particolare il "Corriere della Sera".

 

La collaborazione tra il quotidiano milanese e lo scrittore siciliano si aprì il 4 ottobre 1909, data in cui venne pubblicata la novella Mondo di carta, e si chiuse il giorno prima della morte di Pirandello, il 9 dicembre 1936, quando il "Corriere" ospitò l’ultima delle sue novelle Effetti d’un sogno interrotto. Alla disseminazione e dispersione delle proprie novelle in tante rivoli, in tante sedi editoriali, cercò di porre un argine già lo stesso Pirandello, attraverso vari progetti di raccolta che iniziarono abbastanza presto. Tra il 1894 e il 1919 Pirandello pubblica infatti 14 volumi di racconti di vario titolo. Ma nel 1919, in un’intervista al “Messaggero della domenica” Pirandello preannuncia che “Tutte le sue novelle, edite o inedite, saranno raccolte in una grande collezione, in un corpus unico. Dodici volumi, trenta novelle circa per ogni volume, totale trecentossentacinque novelle”. E da tale numero questa grande collezione prenderà il nome di Novelle per un anno e inizierà ad essere pubblicata nel 1922. In cima ai volumi della raccolta, compare un’Avvertenza dell’autore che in poche righe, sintetiche ma dense di significato, riassume, o forse è meglio dire allude, ai principali caratteri del progetto editoriale e della poetica delle novelle. L’Avvertenza così inizia:

 

Raccolgo in un sol corpo tutte le novelle pubblicate finora in parecchi volumi e tant’altre ancora inedite, sotto il titolo Novelle per un anno che può sembrar modesto e, al contrario, è forse troppo ambizioso, se si pensa che per antica tradizione dalle notti o dalle giornate s’intitolarono spesso altre raccolte del genere alcune delle quali famosissime.

Anzitutto, dunque, Pirandello si sofferma sull’impegnativo titolo di Novelle per un anno e quasi facendo l’occhiolino al lettore accorto, commenta questo titolo con due aggettivi che rimandano a due sentimenti contrari, la modestia e l’ambizione. Il titolo rimanda inoltre esplicitamente ad una tradizione illustre, richiamata con la coppia di sostantivi, ancora una volta contrari, “notti e giornate”. Due sostantivi, questi, così generici eppur così efficaci nel richiamare immediatamente alla mente titoli quali il Decameron (letteralmente, dieci giorni) e Le mille e una notte. Ma il rimando alla tradizione, in Pirandello, è sempre problematico, per esempio basta pensare a come vengono metaforicamente descritti gli antichi e ammuffiti volumi della biblioteca in cui lavora Mattia Pascal nell’omonimo romanzo o le sue annotazioni metanarrative nelle due premesse iniziali. Il richiamo a grandi classici della novellistica come il Decameron o Le mille e una notte è quindi da contestualizzarsi, anche perché da tali monumenti letterari le Novelle per un anno differiscono per un elemento fondamentale: cioè la mancanza di una cornice narrativa che tenga insieme tutti i frammenti, tutte le novelle, e dia loro un senso complessivo e strutturale. Le Novelle per un anno rimangono invece un’opera labirintica, che non permette né ordine né una morale che poi il significato profondo, la poetica, alla base dei racconti sconfesserebbe. Il caos dell’esistenza rappresentata non diventa mai cosmo, ma al massimo apparenza di un cosmo, destinato a frantumarsi spesso. Teniamo ben presenti questi concetti mentre leggiamo le successive righe dell’Avvertenza:

 

Secondo l’intenzione che mi ha suggerito questo titolo, avrei desiderato che tutt’intera la raccolta fosse contenuta in un volume solo, di quei monumentali che da gran tempo ormai per opera di letteratura non usano più. L’Editore (e chi legge ne intenderà facilmente le ragioni) non ha voluto seguirmi in questo desiderio, e m’ha anzi consigliato di dividere la raccolta non in dodici volumi, di trenta e più novelle ciascuno, come almeno m’ero rassegnato a chiedergli, ma in ventiquattro. Il che potrebbe suggerire, a chi ne avesse voglia, qualche non inutile considerazione sull’indole e le necessità del tempo nostro.

La storia editoriale delle Novelle viene qui dunque presentata come un tentativo fallito in partenza di dare unitarietà a una materia disgregata: figuratamente, da un solo progettato libro si passa infatti a 12 e poi addirittura a programmarne ben 24. In realtà poi i libri effettivamente pubblicati saranno solo 15, ognuno intitolato come la prima novella che vi è contenuta. I primi tredici volumi vengono pubblicati, come accennavamo, dalla casa editrice Bemporad di Firenze. Poi Pirandello passa alla Mondadori, che ripubblica i tredici volumi già usciti, ne aggiunge un quattordicesimo nel 1934 e poi ne pubblica un quindicesimo, postumo, nel 1937. Il totale di novelle raccolte nell’intera opera è dunque di 225, contro un progetto annunciato di 365, come i giorni dell’anno. A proposito di questo, bisogna porre attenzione al fatto che Pirandello si affretta subito a chiarire che il legame tra le novelle e il tempo dell’anno è solo una questione di numeri:

 

le novelle di questi ventiquattro volumi non vogliono esser singolarmente né delle stagioni, né dei mesi, né di ciascun giorno dell’anno. Una novella al giorno, per tutt’un anno, senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni nessuna abbia tratto la sua qualità.

Anche quello dello dei giorni, dei mesi e delle stagioni è dunque un ordine, una forma, che è rifiutata per attribuire un senso, una coerenza a testi che si vogliono interpretativamente liberi, fluidi, vivi. Come opera, le Novelle per un anno nascono dunque sì da un’idea prospettata di ordine narrativo e strutturale, che porta anche a rivedere e rielaborare i testi già editi per adattarli alla nuova collocazione:

 

Ogni volume ne conterrà non poche nuove, e di quelle già edite alcune sono state rifatte da cima a fondo, altre rifuse e ritoccate qua e là, e tutte insomma rielaborate con lunga e amorosa cura.

Ma la vita è contraddittoria, e questo ordine è ancora una volta vuoto, illusorio, addirittura espressamente smentito, come abbiamo letto poco fa.

La poetica a cui l’opera si ispira, è del resto per gran parte quella dell’umorismo in senso pirandelliano:

 

l’autore delle Novelle per un anno spera che i lettori vorranno usargli venia, - dice - se dalla concezione ch’egli ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti piccoli specchi che la riflettono intera.

Ancora una volta vediamo citato, in uno scritto pirandelliano, l’oggetto specchio, lo strumento umoristico per eccellenza dello sdoppiamento della realtà, e quindi della sua frammentazione, e che pur piccolo, pur riflettendo solo minuscole porzioni della vita, dettagli, sassolini come direbbe il Vitangelo Moscarda di Uno, Nessuno,Centomila, riesce a ingrandirli, deformarli, farli diventare addirittura montagne, mondi interi. Lo specchio riesce così a farsi lente deformante, a mostrare particolari minuti come fossero orrendamente grotteschi: la tecnica della zoomata, del caricare espressionisticamente dettagli, gesti e atteggiamenti, è estremamente praticata dal Pirandello novelliere, molto più che dal Pirandello romanziere.
Il campionario umano sottoposto a tale arte umoristica e di deformazione espressionistica è davvero vasto, e collocato per lo più in due ambienti socio-geografici abbastanza riconoscibili. Da una parte abbiamo la Sicilia contadina, rappresentata per esempio nelle famose novelle de La giara o di Ciaula scopre la luna. È la stessa Sicilia di Verga eppure raccontata in maniera profondamente diversa: Pirandello insiste sul suo sostrato mistico e folklorico, ne mostra le deformazioni grottesche, il suo procedere insensato. Non vi rintraccia certo la logica e l’inevitabilità delle leggi dell’esistenza care ai veristi. Dall’altra parte, abbiamo invece gli ambienti piccolo borghesi continentali, spesso ambienti impiegatizi romani, in cui si muovono figure avvilite, prigioniere di trappole sociali e famigliari alienanti, come il Belluca della novella Il treno ha fischiato. In questi ambienti, l’elemento scatenante che irrompe e dà vita al racconto è per lo più il caso: un fatto imprevedibile, un accidente quotidiano, che però riesce a creare il caos, a sconvolgere abitudini e aspettative, gettando all’improvviso il personaggio in una situazione di disagio e poi di scoperta di nuove, spesso folli, assurde, paradossali dimensioni dell’esistenza.

 

In corrispondenza, anche il lettore deve adattarsi a questi sconvolgimenti e incoerenze rappresentate: i punti di vista, le focalizzazioni, le tecniche narrative cambiano continuamente, le struttura narrativa è spesso quella della narrazione discorsiva, parlata e dialogante, spesso non si sa con chi.  Il magma fluido della vita straripa e sfonda gli argini, quelli della vita monotona dei personaggi, così come quelli dell’arte. Se dalla concezione del mondo e della vita rappresentati i lettori ne ricaveranno amarezza e scarsa gioia, Pirandello ne chiede subito venia, perdono, offrendo come risarcimento la cura letteraria che ha messo nell’opera, l’impegno posto nel nuovamente rielaborare e risistemare e riscrivere le sue novelle. Questo è in realtà però un altro specchio: sembra qui di rivedere Mattia Pascal, alle prese col suo manoscritto nella caotica biblioteca Boccamazza, mentre giustifica la propria scrittura e il suo raccontare “fatti strani e assurdi”, come “distrazioni provvidenziali” da quella dimensione di insensatezza e amaro spaesamento in cui ci ha precipitati la modernità.