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Alfieri, "Del principe e delle lettere": commento ad alcuni estratti

Del Principe e delle lettere è un trattato composto da Alfieri tra il 1778 e il 1786. Nel capitolo sesto del terzo libro, lo scrittore affronta il tema dell’impulso naturale, ciò che, secondo lui, fa di un uomo uno scrittore. L’autore sostiene infatti che lo scrittore abbia delle caratteristiche ben precise, e debba rispondere ad alcune ‘categorie’ essenziali. Con queste parole Alfieri descrive "l’impulso naturale", quello che non risponde alle esigenze di nessun protettore, ma che è risiede nell’animo di ogni scrittore, anche inconsapevole:

 

È questo impulso, un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, nè loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla.

In questa definizione riscontriamo molti elementi propri della vita dello scrittore, in continua tensione verso un miglioramento, volto continuamente all’affermazione personale. Questo impulso naturale, deve però essere accompagnato da un interesse verso l’altro per non risultare sterile: “Ma da questo immoderato amore di giovare a se stesso con la gloria, non dee nè può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui”.
A questo punto, dopo aver stabilito cosa sia l’impulso naturale, tipico di ogni scrittore, l’Alfieri afferma che esiste un modo per capire se ciascuno di noi lo possieda o meno: la nostra reazione nei confronti della lettura:

 

Se egli, nel leggere ii più sublimi squarci dei più sublimi scrittori, altro non sente nascere in se che commozione e diletto, egli è come i molti che stupidi non sono; se vi si aggiunge la maraviglia, egli può giustamente riputarsi qualche cosa più; ma però ancora minore dello scrittore ch’egli ha fra le mani, e delle descritte cose; e quindi egli è nato soltanto per leggere, e pensare da se: ma, se egli, in vece della semplice maraviglia, si sente a quella lettura accendere nel cuore come da improvvisa saetta un certo sdegno generoso e magnanimo che in nulla sia figlio d’invidia,  e che pure denoti assai più che emulazione; costui chiuda il libro, si faccia libero se tale ei non è, che egli ben merita d’esserlo; e scriva costui, e non imiti, ch’ei sarà grande e imitato. Questa nobile ira non può nascere, se non da un tacito e vivissimo sentimento delle proprie forze, che a quel tratto di sublime si sviluppa e sprigiona dalle più intime falde dell’animo: ella è questa la superba e divina febre dell’ingegno e del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande. È questa quell’ira, che in ogni midollo d’Alessandro scorrea, nel solo udir profferire il nome diAchille [...]. E così ogni grande, che è nato per fare, alla semplice vista di chi fatto ha, rabbrividire si sente.

Alfieri distingue quindi tre "livelli" di lettore, dal più semplice a colui che nella lettura riconosce il suo essere in realtà uno scrittore, e accompagna a tale riconoscimento un sentimento di sdegno. Dopo aver distinto tra lo scrittore e il lettore, Alfieri procede nella sua analisi, esponendoci due diverse categorie di scrittore: quello protetto e quello no.
Nel capitolo successivo, il settimo, l’Alfieri contrappone quindi all’impulso naturale quello artificiale, proprio dello scrittore "protetto", che deve rispondere a esigenze e desideri altrui, senza riuscire ad essere quindi mail "il primo" in nulla, relegato come è all’imitazione:

 

Quindi legge egli, e rilegge; più lingue impara, e tutte le gusta; di ogni cosa si va facendo tesoro; tutti i generi tenta, in tutti pretende, ed in nessuno primeggia; ma pure, cercando egli sempre ne’ libri altrui ciò che nel proprio ingegno e nel proprio sentimento non trova, perviene a farsi poi finalmente un certo capitaletto, e a risplendere ed ardere, come secondario pianeta, di fiamma accattata. Costui, che dalla immensa fatica sua argomenta doverne riuscire immenso utile e diletto ad altrui, suoi essere sempre assai più orgoglioso e risentito che il vero e semplice grande. Corre tra questi due il seguente divario: il sommo stima se stesso, direi così, senza quasi avvedersene; e vie più si estima nell’atto del comporre, che poscia parlando o esaminando tutto ciò ch’egli ha fatto: il non sommo, col mostrar sempre agli altri un’altissima idea di se, cerca d’ingannare se stesso, e di costringersi a credere di averla. Questi secondi vengono spessissimo dai vani giudizj del mondo preferiti a quei sommi. Sono questi i letterati protetti; e questi, infatti, i proteggibili sono. Ad essi non è tuttavia negato il bello del tutto; ma è sempre un bello d’imitazione, in cui originalità nessuna non li tradisce pur mai. Ma, siccome la minor parte degli uomini sono i lettori; e siccome la più gran parte dei lettori o non ha impulso veruno, o (come i più degli scrittori, e massimamente moderni) da artificiale e debole impulso vien tratta; la fama che si ottiene da questi due così diversi impulsi scrivendo, viene per un certo tempo commista; ed anzi, quasi sempre il minore soverchia il massimo; così, per esempio, da molti, e dai più dei letterati, si antepone a Tacito, Livio.