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Corazzini, "Desolazione del povero poeta sentimentale"

Sergio Corazzini​ (1886-1907) è una figura emblematica per la poesia crepuscolare, sia per le circostanze biografiche (un'esistenza segnata non solo dalla monotonia di un'esistenza borghese ma anche dalla povertà e, infine, dalla tisi) che per alcune costanti della sua poetica, che sviluppa i classici temi crepuscolari del pessimismo, della malattia, della malinconia esistenziale.

Corazzini nasce a Roma nel febbraio 1886 in una famiglia agiata, che, a causa di alcuni investimenti sbagliati da parte del padre, si ritrova a vivere una condizione di povertà e miseria: il poeta e il fratello sono costretti ad abbandonare la scuola, per trovare infine un lavoro in una compagnia di assicurazioni. L'attività letteraria (che insieme con la religione costituisce l'unico conforto di un'esistenza grigia e ignota), vede un primo esordio nel 1902, quando Corazzini compone e pubblica due sonetti, uno in romanesco e uno in italiano; poi, nel 1904, il poeta pubblica la prima raccolta, Dolcezze, mentre l’anno successivo escono L’amaro calice e Le aureole, che replicano e ripropongono le atmosfere cupe e tristi tipiche del crepuscolarismo romano (e sono considerevolmente distanti dal tono ironico e smaliziato del contemporaneo Gozzano e della sua signorina Felicita). Nel 1906 collabora con il poeta e amico Alberto Tarchiani, con cui pubblica Piccolo libro inutile, sintomatico - sin dal titolo - del tono corazziniano, tra sfiducia e sofferenza interiore. In seguito, sempre nel giro di pochi anni (le raccolte del poeta sono per lo più brevissime) escono Elegia e Libro per la sera della domenica. L'attività poetica è però gravata dal male incombente (anch'esso, tipicamente "crepuscolare"); Corazzini si ammala infatti di tubercolosi, malattia che aveva colpito e ucciso anche la madre e il fratello. Nel 1905 è costretto al ricovero, e nuovamente nel 1906, con l’aggravarsi della malattia. Nel 1907, tornato a casa, Corazzini peggiora nuovamente, per morire il 17 giugno.

Le brevi raccolte pubblicate in vita sono così le principali testimonianze della poetica corazziniana,  fortemente anti-dannunziana (nel rifiuto indiretto delle mitologie del superuomo e del "vivere inimitabile" di Gabriele D'Annunzio) e piuttosto influenzata dagli esponenti del Decandentismo franco-belga (tra cui Jammes, Rodenbach, Maeterlinck). La poesia di Corazzini si presenta tematicamente e nei toni umile e dimesse, ma, stilisticamente si può notare una ricerca formale attenta che, pur rifiutando le forme e le pose del dannunzianesimo, utilizza il verso libero (in cui spesso si "mimetizzano" misure tradizionali come quella dell'endecasillabo) per sviluppare la dimensione intimistica e la forte spiritualità del percorso esistenziale corazziniano.

La lirica più nota in tal senso è la Desolazione del povero poeta sentimentale, contenuta nel Piccolo libro inutile; nei 55 versi del componimento, oltre al ritorno dei temi crepuscolari, Corazzini sviluppa una personale riflessione sull'identità del "poeta". Quest'ultimo diventa da vate e guida della nazione (un "poeta laureato", come direbbe Montale) un “piccolo fanciullo che piange”. Il componimento si apre proprio su questa immagine, e sul correlato rifiuto dell'etichetta di "poeta":

Perché tu mi dici: poeta?
io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

(vv. 1-5)

Questo “Silenzio” viene visto da Corazzini come unico mezzo con cui comunicare e ricercare Dio, e la poesia si caratterizza per una forte carica religiosa, cui si somma un compiaciuto desiderio di annullamento e di autocommiserazione, che vede nella morte l'unica soluzione ai propri patimenti. Lo stile, semplice e "basso", si concentra soprattutto sulle ricorrenze lessicali e sugli effetti fonici, inseriti in una struttura metricamente semplice ed elementare (otto strofe di versi liberi):

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

(vv. 48-55)