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Pasolini, "Le ceneri di Gramsci": commento al testo

Le ceneri di Gramsci è una poesia di Pier Paolo Pasolini, contenuta nella raccolta omonima pubblicata nel 1957. La poesia originariamente uscì sulla rivista “Nuovi Argomenti” del novembre-febbraio del ‘55-’56, ma la composizione risale al 1954. La poesia è divisa in sei parti.

Il poeta si trova davanti alla tomba di Antonio Gramsci, politico e pensatore comunista, presso il cimitero degli inglesi a Roma, e dialoga con le sue spoglie, descrivendo un maggio autunnale, che sembra rappresentare “il grigiore del mondo, | la fine del decennio in cui ci appare | tra le macerie finito il profondo | e ingenuo sforzo di rifare la vita”, differente da “quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore” e il giovane Gramsci “delineava l’ideale che illumina”  il silenzio del presente. Da questo primo confronto nascono le riflessioni di Pasolini sulla sua vita e sulla società italiana contemporanea, il dato autobiografico si unisce e si intreccia con quello storico-politico. Emerge quindi il tema pasoliniano del cambiamento della società, avvertito drammaticamente dallo scrittore, che, sempre rivolgendosi a Gramsci, ricorda il mondo rurale, che sta ormai scomparendo e che esisteva anche prima della nascita del politico comunista. Pasolini rintraccia caratteristiche e tratti di questo mondo in quello proletario e povero delle borgate, quartieri popolari e periferici di Roma, un mondo che non gli appartiene, ma da cui si sente attratto. Il poeta ammira la vita proletaria per “la sua allegria”, non per “la millenaria sua lotta”, per “la sua natura”, non per la sua “coscienza”. In questi versi si presenta il confronto con Gramsci e con l’ideologia comunista: a Pasolini il popolo non interessa nella sua lotta di classe e nella sua coscienza di classe, ma nelle sue espressioni più autentiche e vitali, e quindi più sincere. In questi versi viene spiegata la contraddizione intriseca del poeta tra adesione razionale all’ideologia comunista e emotivamente contro di questa: “Lo scandalo del | contraddirmi, | dell'essere | con te e contro te; con te nel core, | in luce, contro te nelle buie viscere; | del mio paterno stato traditore | - nel pensiero, in un'ombra di azione - | mi so ad esso attaccato nel calore | degli istinti, dell'estetica passione”.

L’istinto e la passione interiori sembrano incarnati dalla figura del poeta Shelley (seppelito poco distante da Gramsci e a cui il poeta dedica diversi versi), simbolo della “carnale / gioia dell'avventura, estetica / e puerile" a confronto con la forza razionale, incarnata dal pensatore comunista. A questa passione dei sensi e per la vita Pasolini non può rinunciare, se ne sente partecipe, ma anche vittima, come esprime con questa domanda che rivolge a Gramsci: “Mi chiederai tu, morto disadorno, | d'abbandonare questa disperata | passione di essere nel mondo?”.

L’amore per il mondo proletario, destinato a scomparire, è evidente nella malinconica descrizione finale del quartiere operaio Testaccio: gli operai tornano nelle loro case, si accendono rari lumi, i giovani gridano nelle piazze “a godersi eccoli, miseri, la sera e “il buio ha resa serena la sera”. E Pasolini, osservatore di questo mondo e non partecipe delle gioie dei ragazzi, ne constata l’inevitabile declino: “Ma io, con il cuore cosciente | di chi soltanto nella storia ha vita, | potrò mai più con pura passione operare, | se so che la nostra storia è finita?”. La società dei consumi, imponendo nuovi valori e un nuovo linguaggio, è la causa della fine di questo mondo, dal momento che ha omologato i costumi degli italiani, eliminando i tratti più originali del mondo popolare.