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"Ognissanti" di Manzoni: confronto con "Adelchi" e "I Promessi Sposi"

Così l’antitesi fra l’umile abbandono in Dio del "tacito fior" e lo "sdegnoso", lo spregiatore delle virtù dei pii solitari ritenuti socialmente inutili, si fa immagine guida e simbolo di un elemento centrale in Manzoni, come si diceva all’inizio. A livello degli Inni sacri infatti, essa si fa eco di quel democraticismo che si ritrova ne Il Natale ai vv. 64-77; ne La risurrezione ai vv. 92-105; ne La Pentecoste ai vv. 65-72; ne Il nome di Maria ai vv. 45-56. Nei passi indicati, la prospettiva religiosa del poeta investe le forme della società e ne denuncia le diseguaglianze ingiuste all’occhi di Dio, che Egli sovverte e vanifica in nome di una eguaglianza universale che si contrappone alla logica spietata e crudele delle dinamiche sociali. Quell’umiltà ferita e offesa dai grandi e dai potenti che in Dio trova il proprio garante, per quanto avvolto dal Mistero della sua apparente lontananza. Ma nel simbolo del "tacito fior" si ritrova anche il fidente e umile atteggiamento del diacono Martino che, in Adelchi, affronta, senza garanzie, il viaggio, in una natura incontaminata, alla ricerca di una via per la Francia; in questo "fior" si ritrova allora anche l’innocente dolore di Ermengarda, sempre nell’Adelchi, il coro dedicato alla quale si chiude non a caso con l’immagine del sole al tramonto che annuncia un giorno più sereno, dopo l’offerta di sé a Dio da parte della donna; in questo fior viene così a riflettersi anche, ad esempio, l’umiltà oscura al mondo di Lucia, e, soprattutto, simbolo per simbolo, la madre di Cecilia, la sua “insensata” ed “inutile” determinazione a vestire di festa il corpo della propria figlia defunta e travolta nell’orrore della peste. Simbolo per simbolo dunque che si fa fiore per fiore, e la madre di Cecilia, con l’altra figlia ancora superstite, ma prossima già alla morte come la madre, sono, assai significativamente, paragonate entrambe, appunto, a un fiore: “come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato” (I Promessi sposi, cap. XXXIV). Non resta allora che elevare lo sguardo, nel silenzio di ogni ragione umana, in alto, al Sole, cioè a Dio. Così fa Renzo davanti a quell’umile tragedia cosmica colta nel quotidiano, simbolo universale, e al contempo singolare, di un evento vissuto nella solitudine assoluta con cui ogni vita, esalando il proprio profumo e la propria bellezza, affronta, sotto lo sguardo di Dio, la morte. Una tragedia la cui umiltà e il cui significato non arrivano invece allo sguardo del mondo.