6'

Giovan Battista Marino: la vita, le opere e l'"Adone"

Giovan Battista Marino nacque nel 1569 a Napoli, primo di sette fratelli. Presto si affrancò dagli studi giuridici verso il quale il padre, notaio di professione, avrebbe voluto indirizzarlo, per seguire la vocazione letteraria: una decisione che lo costrinse ad assicurarsi influenti appoggi presso l’alta nobiltà napoletana. Negli anni giovanili, fondamentale fu la frequentazione dell’Accademia degli Svegliati, già a partire dall’anno della fondazione, avvenuta nel 1588. Un ambiente che gli consentì di allacciare contatti con i più importanti intellettuali e mecenati del tempo e di ricevere un’ampia formazione, anche se non di stampo umanistico tradizionale (Marino non studiò mai il greco e la conoscenza del latino rimase a un livello piuttosto superficiale). Fu cortigiano al servizio di vari signori ecclesiastici e laici, tra i quali Ascanio Pignatelli, importante poeta del tempo che nel 1600 divenne duca di Bisaccia, Giovan Battista Manso, intellettuale e fondatore dell’Accademia degli Oziosi, e Matteo di Capua, principe di Conca e Grande Ammiraglio del Regno, la cui corte era frequentata da un crogiolo di letterati partenopei maturati all’ombra del Tasso. Qui abbozzò alcuni progetti destinati a rimanere incompiuti per lungo tempo: l’Adone, La strage degli Innocenti, le "egloghe boscherecce" della Sampogna. Nel 1598 fu arrestato, forse in seguito a un’accusa di sodomia (alla quale farà ampio riferimento Gaspare Murtola, principale avversario poetico del Marino, nelle sue Rime satiriche). Liberato grazie a Matteo di Capua, fu nuovamente accusato, questa volta di aver falsificato quattro bolle vescovili con l’intento di salvare un amico, ma riuscì a fuggire dalla città, ancora una volta avvalendosi dell’aiuto del principe di Conca e del Manso.

 

A Roma potè avvalersi di amicizie influenti, in primis quella del chierico di papa Clemente VIII Aldobrandini, ovvero Melchiorre De Crescenzi, e frequentò importanti accademie, come quella degli Umoristi. Tra le sue più illustri conoscenze, Alessandro Tassoni, Gabriello Chiabrera, Tommaso Stigliani (che Marino aveva già conosciuto a Napoli) e il Murtola, destinato in breve a divenire il suo più acerrimo nemico. Nel 1601 partì per Venezia, per pubblicare le Rime, presso l’editore Ciotti. La struttura a sezioni era molto distante dagli esemplari cinquecenteschi. L’opera era infatti divisa in due parti in base al metro: sonetti nella prima parte, canzoni e madrigali nella seconda. La prima parte era inoltre articolata in sottosezioni tematiche: rime amorose, boscherecce, sacre, eroiche, lugubri e morali. Una scelta già sperimentata, sino ad allora, solo da autori minori, mentre l’unico esempio ragguardevole era costituito proprio da Tasso, che tuttavia si era limitato ad un’articolazione in tre parti (amorose, eroiche e sacre). Notevole fu il successo editoriale: in un solo anno, si fecero addirittura tre ristampe, e poi una riedizione nel 1604.

 

Questo corpus, già ampio, conobbe un ulteriore accrescimento nel 1614, quando l’opera assunse il titolo definitivo di Lira, con una terza sezione che presentava ancora un’articolazione di tipo tematico, e portava a un’esasperazione le metafore ardimentose, concettose e sensuali già abbondantemente esperite nelle prime due edizioni. Colpisce, nella produzione mariniana, la rifunzionalizzazione di materiali letterari già noti alla tradizione (petrarchesca, soprattutto, e tassiana), poi teorizzata, con felice formulazione: il “leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch’io trovava di buono, notandolo nel mio Zibaldone e servendone a mio tempo”. “Leggere col rampino” significa, per Marino, riprendere l’antico repertorio di topoi, situazioni, stilemi letterari e retorici, e riutilizzarlo liberamente, spesso accentuandone la componente arguta, concettosa, per provocare la “meraviglia” ("È del poeta il fin la meraviglia, | parlo dell'eccellente e non del goffo, | chi non sa fa stupir vada alla striglia”, come sintetizza efficacemente un celebre passo della Murtoleide). Altre caratteristiche della poetica marinista e barocca in genere, sono un’accentuata componente di sensualità (secondo una linea già inaugurata, seppur con toni più pacati, dall’autore della Liberata), e un allargamento del canone delle cose poetabili, in base al quale oggetto del dire poetico possono essere anche il brutto, il grottesco, il mostruoso. Le poesie geminano, l’una dall’altra, con continuo gioco variantistico-combinatorio, traducendosi in una proliferazione smisurata di componimenti sullo stesso tema.


Ai primi anni del ‘600 risale anche la prima vera progettazione dell’Adone e di un altro grande poema, che avrebbe dovuto riprendere quello tassiano, dal titolo La Gerusalemme distrutta (che tuttavia non fu mai portato a compimento). Dal 1603, Marino entrò al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII: il contesto rimase favorevole al poeta fino all’elezione di papa Paolo V, in seguito alla quale tanto l’Aldobrandini quanto la corte al seguito (Giovan Battista compreso) furono costretti a trasferirsi a Ravenna e poi a Torino. Qui compose Il Ritratto, poemetto dedicato a Carlo Emanuele di Savoia, che gli valse un’illustre onorificenza che provocò le invidie del Murtola, e un conseguente inasprimento dei rapporti. Nuovamente incarcerato nel 1612 per motivi non del tutto chiari, e rimasto in prigione più di un anno e mezzo, si dedicò alla Galleria, una serie di componimenti descrittivi relativi ad opere artistiche, alle tre Dicerie Sacre, e si recò in seguito a Parigi, presso la corte di Maria di Francia, per sfuggire alle nuove accuse che gli venivano rivolte e dedicarsi con maggior impegno all’ambizioso progetto dell’Adone, più volte ripreso e abbandonato, e pubblicato soltanto nel 1623. L'Adone è infatti un immenso poema di argomento mitologico (oltre 40mila versi!), è in realtà fondato su una trama piuttosto esile: Venere si innamora di Adone, provocando le ire di Marte, il quale, per vendicarsi del giovane, lo fa assalire da un cinghiale, provocandone l’uccisione. Quest'elementare intreccio che diviene la struttura portante di un procedere digressivo, fatto di metafore, descrizioni, narrazioni di secondo grado, che dilatano all’inverosimile i confini della narrazione, provocando nel lettore l’impressione di una perdita del baricentro. Il mito è, ancora una volta, rifunzionalizzato pretestuosamente, in favore di una letteratura che celebra se stessa attraverso un tessuto linguistico e stilistico ardimentoso, che si avvale di metafore e concettosità. Negli anni dell’ultimazione dell’Adone, Marino rimise poi mano alla Galleria, alla Sampogna, raccolta di idilli pastorali, e alla Strage degli Innocenti, pubblicato postumo. Tornò in Italia nel 1623, dove morì, nella città natale, appena due anni dopo.