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"Satira I" di Ariosto: analisi del testo e commento

Introduzione


La prima Satira di Ariosto presenta il resoconto della rottura tra l’autore e il cardinale Ippolito d’Este, in seguito al suo rifiuto di seguire l’ecclesiastico in Ungheria, nella nuova sede di vescovato di Agria. La satira è indirizzata al fratello Alessandro e a Ludovico da Bagno, segretario del cardinale e amico personale del poeta. I due, al contrario di Ariosto, decidono di accompagnare il cardinale. A loro il poeta esprime le ragioni della sua scelta, ribadendo il proprio amore per la libertà individuale e per un’esistenza serena e pacifica, fino all’apologo dell’asino e del topolino. A contorno, la sottolineatura amara dei vizi di adulazione ed ipocrisia, che rendono impossibile la vita a corte.


Analisi della prima Satira


La Satira si apre con una riflessione dell’autore sulla propria coerenza personale; se infatti non obbedire al proprio signore può essere inteso come un atto gravissimo 1, Ariosto afferma che egli almeno ha manifestato le sue intenzioni “a viso aperto e non con fraude” 2. La sua natura di letterato lo rende inadatto al mestiere dell’adulatore 3, e aggiunge, con gioco ironico, di sentirsi anche lontano dal clima e dalla cucina ungheresi:

So mia natura come mal conviensi
co' freddi verni; e costà sotto il polo
gli avete voi più che in Italia intensi.

E non mi nocerebbe il freddo solo;
ma il caldo de le stuffe, c'ho sì infesto,
che più che da la peste me gli involo.

[...] E il vin fumoso, a me vie più interdetto
che 'l tòsco, costì a inviti si tracanna,
e sacrilegio è non ber molto e schietto.

Tutti li cibi sono con pepe e canna
di amomo e d'altri aròmati, che tutti
come nocivi il medico mi danna.

Qui mi potreste dir ch'io avrei ridutti,
dove sotto il camin sedria al foco,
né piei, né ascelle odorerei, né rutti;

e le vivande condiriemi il cuoco
come io volessi, et inacquarmi il vino
potre' a mia posta, e nulla berne o poco. 4

A queste motivazioni più futili (ma che Ariosto presenta come serissime) si aggiungono quelle reali e profonde. Innanzitutto, la sostanziale insensibilità del cardinale Ippolito nei confronti della sua poesia, che lo spinge ad affermare che il suo protettore a corte non si meriti più le sue fatiche artistiche 5. Alle preoccupazioni per la famiglia (la madre anziana, i dieci fratelli) e per la propria età 6, si aggiunge poi il fastidio per la vita di corte, cui Ariosto si è prestato - basti ricordare le pericolose missioni nel 1509 e nel 1512 a Roma per placare l’ira di Giulio II - ma in cui non si è mai integrato pienamente. La rinuncia ai benefici e alle prebende della carriera diplomatica è compensata, a suo modo di vedere, dal recupero della dignità e della libertà 7

In chiusura (vv. 247-265), Ariosto, seguendo il modello di Orazio, inserisce una breve favola come metafora chiara e trasparente della propria condizione. La storia è quella di un asino e un topolino: un asino, entrato in un granaio attraverso un grosso buco nel muro (vv. 248-249: “pel rotto del muro”), mangia tutto il grano lì contenuto; una volta sazio, temendo l’arrivo del contadino, cerca di uscire dalla fessura, ma, avendo la pancia gonfia, non riesce più ad uscire; interviene, quindi, un topolino, che gli consiglia di vomitare tutto quello che aveva mangiato per poter fuggire. Lo stesso accade ad Ariosto che, per poter riottenere la libertà, è costretto a rinunciare ai doni e ai benefici del cardinale:

Uno asino fu già, ch’ogni osso e nervo
mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
del muro, ove di grano era uno acervo;

e tanto ne mangiò, che l’epa 8 sotto
si fece più d’una gran botte grossa
fin che fu sazio, e non però di botto.

Temendo poi che gli sien péste l’ossa,
si sforza di tornar dove entrato era,
ma par che ’l buco più capir 9 nol possa.

Mentre s’affanna, e uscire indarno spera,
gli disse un topolino: «Se vuoi quinci
uscir, tràtti; compar, quella panciera:

a vomitar bisogna che cominci
ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
altrimenti quel buco mai non vinci».

Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

renderli, e tòr la libertà mia prima 10.

1 Satire, I, vv. 10-12: “Pazzo chi al suo signor contradir vole, | se ben dicesse c'ha veduto il giorno | pieno di stelle e a mezzanotte il sole”.

2 Ivi, v. 21.

3 Come ribadirà anche più avanti, vv. 141-144: “che debbio far io qui? poi ch’io non vaglio | smembrar su la forcina in arie starne, | né so a sparvier né a can metter guinzaglio? | Non feci mai tai cose e non so farne”.

4 Ivi,, vv. 34-39 e vv. 49-60.

5 Ivi, vv. 97-99: ““Non vuol che laude sua da me composta | per opra degna di mercé si pona, | di mercé degno è l’ir in pòsta”; e cioè: “il cardinale non ritiene che sia meritevole di compenso un’opera poetica composta da me, ma è degno della sua considerazione solo il viaggiare velocemente”.

6 Ivi, vv. 217-219: “vecchio fatto | di quarantaquattro anni, e il capo calvo | da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto”.

7 Ivi, vv. 82-84: “Fa che la povertà meno m’incresca, | e fa che la ricchezza sì non ami | che di mia libertà per suo amor esca”.

8 l’epa: la “pancia”.

9 capir: nel significato etimologico di “contenere”; l’asino, gonfiato dal cibo, non passa più dal buco.

10 Ivi, vv. 247-265.