I Promessi Sposi di Manzoni: la poetica nelle lettere a Fauriel e Giudici

Il percorso di Alessandro Manzoni verso I Promessi Sposi: la rappresentazione del reale, il senso del comico e la struttura polifonica. A cura di Alessandro Mazzini.

L'itinerario di Manzoni verso il romanzo vede una costante riflessione da parte dell'autore, che si può constatare anche da numerose lettere del suo epistolario. Tra di esse, particolarmente significativa è quella a Gaetano Giudici, amico milanese dello scrittore, scritta dall'autore del romanzo a Parigi nel febbraio 1820. Ancora prima di iniziare a lavorare alla stesura de I Promessi Sposi, Manzoni definisce la presenza di due interessi per lo spettatore che si accosta ad un testo letterario o ad una visione a teatro: il primo teso ad evadere dalla realtà, il secondo che invece la ricerca in "quel misto di grande e di meschino, di ragionevole e di pazzo, che si vede negli avvenimenti di grandi e piccioli di questo mondo". Un tipo di interesse, quest'ultimo, che nasce da una rappresentazione più aderente alla realtà per ciò che essa è, nella  molteplicità e nella compresenza di toni e livelli che si intrecciano in essa. Ciò soddisfa, secondo l'autore, un desiderio insito nell'uomo stesso: "questo interesse tiene ad una parte importante ed eterna dell’animo umano, il desiderio di conoscere quello che è realmente, di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra".
 
Il tema, più volte affrontato da Manzoni, è oggetto anche di una lettera a Claude Fauriel del settembre 1822 (periodo in cui è già cominciata la scrittura de I Promessi Sposi). A proposito della mescolanza di comico e di serio, egli afferma che essa è presente di per sè nella natura e non può essere considerata come un elemento di ostacolo nell'impressione armonica di quest'ultima. Quello che per Manzoni è assolutamente da evitare è il falso. Ecco, quindi, che si rivela l'impostazione del suo romanzo storico: un anti-genere, contro i divieti del classicismo e della letteratura tradizionale. Tuttavia, in una lettera dell'anno successivo (1823), quando il romanzo è concluso, Manzoni scrive insoddisfatto al Fauriel definendo la sua opera una "cicalata", "il mio materasso imbottito di carta scritta", un "guazzabuglio". Quest'ultimo è un termine quasi tecnico del linguaggio manzoniano, che si riferisce a quella ridda di contrasti e conflitti che albergano nel cuore umano e si riflettono sulla società e sulla Storia (viene usato, ad esempio, per descrivere il padre di Gertrude).

Alessandro Mazzini è professore di Greco e Latino presso il Liceo Classico Manzoni. Si è laureato in Letteratura Greca con il professore Dario Del Corno presso L'Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con riviste di divulgazione culturale e ha insegnato per 10 anni Lingua e Letteratura Italiana e Lingua e Letteratura Greca presso il Liceo della Scuola Svizzera di Milano. Dal 2001 è ordinario di Italiano e Latino nei Licei e dal 2003 ordinario di Greco e Latino al Liceo Classico.
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L’itinerario di Manzoni verso il romanzo vede come ogni attività che ritrae il Manzoni, una costante riflessione da parte dell’autore che si può agevolmente constatare nelle numerose lettere dell’epistolario manzoniano ed in particolare in alcune lettere che rivolge a Fauriel. Per cui considereare queste lettere offre una chiave per accostarsi alle ragioni, alla riflessione di Manzoni sul romanzo, molto importante, molto significativa.

Tuttavia esiste una lettera rivolta a Gaetano Giudici, un amico di Milano di Manzoni, una lettera scritta da Parigi nel 1820, in cui ancora prima che il Manzoni iniziasse a lavorare al romanzo, si constata la presenza di una tematica che è fondamentale per poi il passaggio appunto alla realizzazione del romanzo. In questa lettera il Manzoni definisce l’esistenza di due interessi per lo spettatore o per il lettore che si accosti ad un testo letterario, per la lettura o per la visione a teatro. Cioè il Manzoni individua un interesse che nasce dal veder rappresentati gli uomini e le cose come dovrebbero essere secondo il desiderio che noi ne abbiamo, quindi un interesse teso ad evadere dalla realtà e poi parla dell’esistenza di un interesse legato ad una rappresentazione, la più vicina al vero dice il Manzoni, di quel misto di grande e meschino, di ragionevole e di pazzo che c’è in tutti gli avvenimenti umani, grandi e piccoli. Un tipo di interesse che nasce quindi da una rappresentazione che si vuole più aderente alla realtà per ciò che essa è, e che quindi rappresenta di questa la sua molteplicità, la sua varietà, la sua compresenza di toni, la sua compresenza di ceti, la sua compresenza di livelli che si intrecciano e che si svolgono in parallelo e che secondo Manzoni soddisfa ad un desiderio. Il desiderio è importante nell’uomo. Dice infatti, che questa rappresentazione nasce appunto da “un interesse che tiene ad una parte importante ed eterna dell’animo umano, il desiderio di conoscere quello che è realmente, di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra.”

Quindi una rappresentazione che tenga conto di questa molteplicità del reale e di questa compresenza e mescolanza di livelli e di piani, è una rappresentazione che può meglio mettere in luce il senso della presenza dell’uomo nel mondo. Questo tema che è un tema che più volte aveva affrontato come centrale del perchè della letteratura nei testi di riflessione poetica presi in considerazione nelle lezioni precedenti, questo elemento è oggetto anche di una lettera a Claude Fauriel, una lettera che si colloca nel settembre del 1822, quindi quando Manzoni sta già lavorando al romanzo. E proprio a proposito della mescolanza di comico e di serio, tema su cui il Manzoni scende perchè a quell’epoca Fauriel stava occupandosi della pubblicazione della lettera allo Chauvet, nella quali Manzoni in un primo tempo in qualche modo si era opposto alla opportunità di mescolare in un’opera di letteratura comico e serio. Ebbene nel ’22, quando sta lavorando al romanzo, al Fauriel fa presente che egli rivede in questo senso le sue posizioni perchè egli ritiene che tale mescolanza è nella natura e quindi essa non può essere considerata come un elemento che impedisca l’impressione armonica e piacevole. Quello che secondo lui è assolutamente da evitare è il falso. Allora l’accettazione della mescolanza di comico e serio comporta l’esigenza di un genere letterario che consenta questa mescolanza, mescolanza bandita dalla prospettiva classicistica. Ed ecco che allora il romanzo come anti-genere ed in qualche modo come letteratura contro la letteratura, come si avrà modo di vedere più avanti, darà una risposta a Manzoni su questa possibilità. Senonchè in una lettera del ’23 quando Manzoni scrive a Fauriel, avendo concluso il romanzo, ebbene Manzoni consapevole di questa mescolanza che il romanzo gli ha consentito è comunque molto insoddisfatto. Parlando infatti del suo romanzo lo definisce una “cicalata”, “il mio materasso imbottito di carta scritta” e più avanti in questa lettera a Fauriel definisce il suo romanzo “un guazzabuglio”. Ora guazzabuglio è in realtà un termine che ha una precisa rilevanza poetica, secondo un tipica prospettiva ironica che verrà messa in luce successivamente, in quanto guazzabuglio è appunto un termine (in realtà sembra un termine familiare e paralizzante, ma si può dire quasi tecnico per Manzoni), che definisce quella ridda di contrasti, di conflitti, che albergano nel cuore umano (è il termine usato dal Manzoni quando parla del padre di Gertrude) e che corrisponde poi ad una confusione caotica, appunto un guazzabuglio a livello della società umana e quindi della storia. Ora il suo romanzo è definito un guazzabuglio e quindi in perfetto parallelo con quella complessità del cuore umano e quella complessità del reale che sono due dei tre poli di complessità che il Manzoni tiene presenti come richiedenti la forma del romanzo.

Ed allora in questa lettera egli riconosce, pur nell’insoddisfazione, di aver cercato di conoscere esattamente e di dipingere sinceramente l’epoca ed il paese in cui ha situato la sua storia, affermando che in questa vicenda c’è tutto quello che può far fare una meschina figura agli uomini. Ed anche questo è un elemento molto importante perchè è proprio come aveva detto il Manzoni in precedenza negli scritti estetici, è proprio il mettere in luce la pochezza umana che consente di dare valenza etica alla rappresentazione letteraria. In qualche modo è una forma ulteriore di quella dimensione di sofferenza che nel Coro di Ermengarda si qualificava come la via verso la santità. Ebbene la letteratura può arrivare alla sua “santità” se mette in luce innanzitutto la miseria dell’uomo e ne scuote profondamente le false certezze, perchè solo attraverso questa via può arrivare ad una profonda coscienza di sè, una profonda coscienza del significato della vita. Egli ammette di aver tentato di trarre profitto dalla lezione della storia che ha inserito nel suo romanzo storico e quindi riconosce quella che noi potremmo chiamare la polifonia come dimensione specifica del romanzo che nasce dal sentimento della complessità. Dice infatti, il materiale è ricco, tutto ciò che può far fare agli uomini una meschina figura c’è in abbondanza, la saccenteria dell’ignoranza, la presunzione nella stolidità, la sfacciataggine nella corruzione, sono forse i caratteri salienti di questa epoca, con molti altri analoghi. E più avanti dice

ho voluto trarre profitto da tutto ciò, Dio sa come, vi ho ficcato dentro contadini, nobili, monaci, religiose, preti, magistrati, intellettuali, la guerra, la carestia, e questo è aver fatto un libro.

Questo era il guazzabuglio agli occhi di Manzoni.