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Giorgio Caproni: “Il seme del piangere” e le altre poesie

La vita

 

Giorgio Caproni nasce nel 1912 a Livorno da Attilio Caproni, di professione ragioniere, e Anna Picchi, sarta. A dieci anni si trasferisce con la famiglia a Genova, che diventerà la sua “patria” adottiva e poetica. Qui svolge studi irregolari che lo portano, grazie anche alla sua passione per i classici, la filosofia e la più recente poesia italiana (Ungaretti, Montale e Sbarbaro), a conseguire nel 1935 il diploma magistrale. Nel 1939 si trasferisce a Roma. Durante la Seconda Guerra Mondiale combatte sul fronte occidentale, ma all’indomani dell’8 settembre si dà alla macchia per farsi partigiano in Valtrebbia, sull’Appennino Ligure. Dopo la guerra continua a vivere nella capitale, dove fa il maestro elementare. Con la propria famiglia, composta dalla moglie Rina e da due figli, vive in ristrettezze economiche, ben poco alleviate dalla collaborazione a diverse riviste (in particolare «La Nazione», dove prende il posto di Giuseppe De Robertis come critico letterario) e dall’eccellente lavoro di traduttore, specialmente dal francese 1. Muore a Roma nel 1990, dopo aver raggiunto un meritato riconoscimento pubblico, in Italia come all’estero.

 

L’opera poetica

 

La poesia di Giorgio Caproni si caratterizza per l’immediata comunicatività e per la tipica musicalità che sa tenere insieme leggerezza ironica e meditata malinconia; caratteri questi che ricollegano Caproni allo stile di un poeta a lui caro come Umberto Saba e che lo distinguono nettamente nel panorama italiano degli anni Venti e Trenta, dove prevale in questi anni l’espressione criptica degli Ermetici, e anche in quello degli anni Sessanta e Settanta, dove il modello di riferimento è la poesia difficile e “decostruita” della neoavanguardia del Gruppo 63. Il carattere anti-intellettualistico proprio di Caproni e dei suoi versi poggia sulla ferma convinzione che solo facendosi comprendere la parola poetica possa trasformarsi in vero strumento di azione e di conoscenza, caricandosi delle tensioni e delle contraddizioni del suo tempo. Per le evoluzioni a cui questa primaria ispirazione viene stata sottoposta, l’attività di Caproni può essere suddivisa in tre fasi, corrispondenti a tre gruppi di opere.

Al primo periodo appartengono tutte le raccolte poi confluite nel 1956 nella grande silloge intitolata Il passaggio d’Enea: di questa fanno parte la plaquette Come un’allegoria, con cui Caproni esordì nel 1936, e i versi di Ballo a Fontanigorda (1938), Finzioni (1941), Cronistoria (1943) e delle Stanze della funicolare (1952). Qui Caproni inaugura l’uso di forme brevi e anche brevissime - che resterà tipico di molta sua poesia - per costruire un discorso fatto di immagini che si inseguono rapide tra i versi, grazie anche a un impiego sapiente dell’enjambement e della rima, cui Caproni conferisce un ruolo strutturale molto importante. I temi prevalenti sono quelli ispirati da un’adesione allo spettacolo della quotidianità cittadina, che riserva improvvise gioie, ma lascia anche il sospetto che la superficie delle cose non sia altro che una maschera e che il mondo si riduca a finzione. Dove Caproni mostra maggiore originalità tuttavia è nei versi che occupano l’ultima sezione del Passaggio di Enea (usciti inediti in quell’edizione) 2: si tratta di poesie che riflettono il trauma della guerra e le sofferenze di un’Italia immiserita e tuttavia mai rassegnata. Protagonista è Genova, simbolo di una civiltà che si conserva umana e solidale e che si manifesta nel lavoro e negli impegni di una vita quotidiana affollata di oggetti. A sconfortare il poeta è però la consapevolezza di non poter appartenere a questa realtà e di doversi mettere in viaggio, come Enea, lasciandosi alle spalle i ricordi felici, come testimoniano i versi della lunga  e struggente Litania, che chiude l’intera sezione:

Genova di lamenti.
          Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
          invano da me implorata 3.

Il secondo periodo dell’opera di Caproni corrisponde alle poesie che si rifanno alla memoria biografica del poeta, legata a Livorno e alla figura della madre, morta nel 1950. A lei sono dedicati di Versi livornesi de Il seme del piangere (1959), raccolta nata sotto auspici danteschi 4 e cavalcantiani nella lirica che fa da prologo. Si tratta di un breve canzoniere d’amore filiale per Anna Picchi, che rivive, in questi versi freschi e svelti, nella sua splendida giovinezza, quando il poeta ancora non era nato. Nasce da qui un’irrazionale senso di colpa, affidato, insieme all’affetto struggente, a una versificazione volutamente orientata a parole semplici e a rime convenzionali, che diventano il contrassegno di una poetica estremamente originale.

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte, ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari 5.

A quest’epoca appartiene anche il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965), raccolta in cui l’io del poeta si nasconde dietro controfigure di personaggi marginali, che dichiarano il proprio distacco dalla vita sociale e dal mondo, verso il quale, comunque, conservano uno sguardo affettuoso.

Dopo il “congedo”, si apre la terza e ultima stagione della poesia caproniana, addensata intorno alle raccolte Il muro della terra (1975), Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevenhüller (1986). Si tratta di tre libri dalla composizione molto attenta: le poesie vi si presentano ulteriormente rarefatte, ridotte a pochissimi versi; il peso delle raccolte poggia infatti tutto sulla loro architettura, organizzata attentamente secondo percorsi tematici e partiture sonore che permettono a Caproni di ritornare alla giovanile passione per la musica (e addirittura Il conte di Kevenhüller si presenta come un testo melodrammatico) 6. In queste poesie, l’io lirico scrive da una posizione solitaria e isolata e si rivolge a un mondo che assume le sembianze di un deserto, umano ed esistenziale, come quello circondato dalle mura della città di Dite , nell’Inferno dantesco (canti IX-XI), a cui rimanda il titolo della prima raccolta. Caproni riflette, con un tono dolente che talora viene sostituito da una tenera ironia, sulla condizione di spaesamento, di perdita dei legami con il passato e dei valori di riferimento; vorrebbe riconoscersi nella figura del “cacciatore” che si mette sulle tracce della verità o di Dio, ma finisce per ammettere di essere sempre rimasto fermo al proprio posto, atterrito - o forse anche sollevato - dalla consapevolezza che “Dio non c’è e non esiste” 7.

Non mi ha risposto.
Gli ho scritto tante volte.
Non mi ha mai risposto.
Io credo che sia morto. Non penso
che si tenga nascosto 8

Come confermano anche i Versicoli del controcaproni (pubblicati per la prima volta nel 1983, nell’edizione di Tutte le poesie) e la raccolta Res amissa (uscita postuma nel 1991, a cura di Giorgio Agamben), Giorgio Caproni ha saputo dare dimostrazione di come, in un tempo di astruse astrazioni concettuali e dello svuotamento di significato del linguaggio comune, la poesia possa farsi parola di inaudita levità e chiarezza senza rinunciare all’ambizione e alla responsabilità di riflettere le inquietudini di un’epoca, come il secondo Novecento italiano, attraversata da turbolenze e trasformazioni spiazzanti.

1 È lunghissimo l’elenco dei “grandi autori” affrontati da Giorgio Caproni come traduttore; per restare al versante francese, non si possono non segnalare le traduzioni della Recherche di Marcel Proust e di Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline, ma soprattutto le traduzioni di poeti come Paul Verlaine, Guillaume Apollinaire e Charles Baudelaire. Alcune di queste, insieme ad altre traduzioni realizzate dallo spagnolo, sono state raccolte dopo la morte dell’autore nel Quaderno di traduzioni (Torino, Einaudi, 1998).

2 Successivamente il titolo Il passaggio di Enea verrà riservato da Caproni esclusivamente ai versi di quella sezione, composti tra il 1943 e il 1955.

3 G. Caproni, Litania, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 187.

4 Il titolo infatti è un’espressione della Beatrice dantesca nel trentunesimo canto del Purgatorio, vv. 43-48: “Tuttavia, perché mo vergogna porte | del tuo errore, e perché altra volta, | udendo le serene, sie più forte, | pon giù il seme del piangere e ascolta: | sì udirai come in contraria parte | mover dovieti la mia carne sepolta”.

5 G. Caproni, Per lei, in Tutte le poesie, cit., p. 211.

6 Prima di dedicarsi agli studi letterari, infatti, Caproni aveva intrapreso studi musicali di composizione e violino, interrotti tuttavia per via della difficile situazione economica della famiglia, alla quale cominciò a contribuire lavorando come fattorino.

7 G. Caproni, Inserto, in Tutte le poesie, cit., p. 439.

8 G. Caproni, Benevola congettura, in Tutte le poesie, cit., p. 427.

Testo su Novecento

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