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“Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie” di Leopardi: riassunto e commento

Introduzione

 

All’interno delle Operette morali leopardiane, la più evidente novità del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, composto a Recanati tra il 16 e il 23 agosto 1824, è senz’altro la struttura. L’operetta è infatti l’unica di tutta la raccolta che vede convivere versi e prosa. La lirica del Coro dei morti presente in apertura è, inoltre, un componimento poetico estremamente significativo non solo per i suoi contenuti, che riflettono sull’inconoscibile mistero della vita e della morte, ma anche sotto l’aspetto formale, dato che la poesia, che alterna liberamente endecasillabi e settenari, segna il distacco di Leopardi dalla canzone tradizionale per passare alla canzone libera, che poi caratterizzerà la stagione dei canti pisano-recanatesi. La scelta di esordire con una canzone crea immediatamente un’atmosfera solenne, che rende protagonisti i morti, i quali contemplano “con uno spirito di arresa all’incomprensibilità delle vita, uguale a quello che i vivi hanno nei confronti della morte” 1. Nella canzone - costruita con uno stile ampio e complesso  - si dichiara l’impossibilità di conoscere e comprendere l’arcano che governa la Natura. Questa stessa impossibilità di comprendere viene poi ribadita nella parte in prosa dell’operetta, dove dialogano Federico Ruysch (1638-1731), anatomista olandese famoso per aver approntato nuove tecniche di mummificazione dei cadaveri, e un gruppo di morti conservati nel suo studio.

 

Riassunto

 

La vicenda è ambientata nello studio dello scienziato; Federico Ruysch viene svegliato nel cuore della notte dal canto dei defunti risorti poiché si sta compiendo “l’anno grande e matematico”, ossia quel momento in cui i pianeti si ritrovano nella stessa posizione in cui ebbe principio il loro moto. Allo scoccare della mezzanotte i morti di ogni dove hanno facoltà di parlare coi vivi per un quarto d’ora. Ma a una condizione: che siano i vivi a rivolgere loro domande, poiché i defunti, tra loro, non saprebbero che dirsi. L’imbalsamatore vince a fatica la paura che lo inchioda a letto, si alza e ordina alle sue mummie di fare silenzio. Da qui l’atmosfera dell’operetta perde quella solennità creata dai versi per lasciare spazio a momenti di ironia e a passaggi burleschi, dovuti essenzialmente alla goffaggine del personaggio personale, che si ritrova inaspettatamente di fronte a una situazione paradossale. Impaurito che i cadaveri siano risuscitati, Ruysch rimane spiazzato finché il primo non lo rassicura con queste parole:

Poco fa, sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell'anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose.

L’olandese allora improvvisa una serie di domande che corrispondono ad altrettanti luoghi comuni sul tema della morte, che i cadaveri si apprestano a smentire o correggere. Ruysch chiede che cosa si prova in punto di morte e, con sua sorpresa, si sente rispondere che non si avverte proprio niente, esattamente come non ci si avvede del momento in cui ci si addormenta. Col procedere del dialogo, l’anatomista cerca di incalzare i suoi interlocutori ma si ritrova sempre più disorientato dalle loro risposte. “Non sentiste nessun dolore in punto di morte?” domanda alle mummie. Alla nuova risposta negativa esse aggiungono che la morte non solo non è un’esperienza dolorosa, ma non è nemmeno un “sentimento”, quanto “piuttosto il contrario”. Si devono quindi ricredere tanto gli epicurei quanto coloro che credono nella vita spirituale: la morte è semplicemente un affievolirsi progressivo di tutte le facoltà senzienti, fino al completo  spegnimento. Si arriva così alla risposta decisiva che i morti danno a Ruysch quando egli chiede loro: “Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?”. Risponde uno dei cadaveri:

Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell'ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell'uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell'uomo sono capaci di piacere anche presso all'estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza e piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qualunque dolore o disagio, e piacere per se medesima.

Alla luce di questa risposta si comprende come la morte non solo venga scagionata dall’essere fonte di dolore, ma venga definita addirittura come un possibile piacere, proprio perché il piacere consiste nel non sentire. Secondo Leopardi la percezione della vita è di per sé dolore perché essa è caratterizzata in ogni momento da una tensione verso un desiderio irraggiungibile. L’indebolimento delle nostre facoltà, invece, ci libera da questa morsa per consegnarci a un non essere che è positivo proprio perché corrisponde a un non sentire. Il piacere è, insomma - come viene detto nell’operetta - la “languidezza”: è l’indebolimento delle nostre forze fino al non essere più. Successivamente i morti rispondono che, per sua stessa natura, l’uomo, fino all’ultimo secondo, rimane aggrappato alla vita. Spera cioè di continuare a vivere anche quando malato o ormai  prossimo al trapasso. La domanda a cui i morti non rispondono è l’ultima che Ruysch pone loro: “Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a letto”. La domanda tenta, come nota Cesare Galimberti, di “conoscere la morte” 2 che però è già stata “definita ignota dal Coro”. Un mistero drammatico si nasconde dietro questa chiusa apparentemente comica, che circolarmente riporta Ruysch nella stesso luogo dove era all’inizio, il letto, lasciandolo in balia di quella stessa incomprensione dell’arcano che egli, come tutti gli uomini, aveva prima di intraprendere il dialogo con le sue mummie.

1 G. Leopardi, Poesie e Prose, a cura di M. A . Rigoni e R. Damiani, Milano, Mondadori, 1997-1998.

2 G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Napoli, Guida, 1985.