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Il finale de "I promessi sposi": commento critico

È molto significativo che il cap. XXXVIII (appunto una sorta di “aggiunta” alla vicenda del romanzo e come una uscita dalla vicenda, propriamente “romanzesca”, uscita che si presenta come un’immersione nel quotidiano dei giorni di sempre) inizi dopo la morte di don Ferrante, narrata alla conclusione del cap. XXXVII.

 

Nel Fermo e Lucia la morte di don Ferrante era oggetto di un rapido ragguaglio contenuto nel penultimo capitolo del romanzo, dove il ritrovamento di Lucia al lazzaretto da parte di Fermo offriva l’occasione di presentare, in modo sintetico, cosa fosse capitato a donna Prassede e a don Ferrante in seguito alla diffusione del contagio. Il cap. XXXVII così si chiudeva sulla scena ad effetto dell’apparizione improvvisa di don Rodrigo morente, al lazzaretto, sulla soglia della capanna dove si trovavano riuniti Lucia, Fermo e padre Cristoforo. Di don Ferrante veniva dunque rapidamente riassunta la morte con poche parole, nelle quali si narrava come avesse contratta la peste dopo non aver preso alcuna precauzione, in seguito al suo convincimento che il morbo fosse dovuto alla congiunzione di Saturno con Giove. La sua morte non assumeva dunque alcun rilievo, presentandosi come una semplice parentesi informativa appena velata di un leggero tono ironico.

 

Ne I promessi sposi del ’40 invece la morte di don Ferrante non solo è oggetto di una narrazione ben più ampia e articolata, ma soprattutto è narrata con quella ironia feroce e tanto più aggressiva quanto più rattenuta e mitigata nei toni, che Manzoni aveva già impiegato nel cap. XXVII, quando aveva offerto il ritratto di quell’uomo di studio e ne aveva illustrato la cultura attraverso la descrizione della sua biblioteca. In quell’ambito la figura del letterato don Ferrante aveva consentito a Manzoni non solo di satireggiare la figura dell’intellettuale del Seicento e di denunciarne l’inanità e l’inessenzialità culturale, ma anche, attraverso una trama di sottili allusioni ad espressioni e tematiche presenti in altre situazioni del romanzo in cui il narratore aveva fatto allusione alla pratica letteraria, di rappresentare, in termini molto critici e problematici, la figura dell’intellettuale e del letterato in generale. Don Ferrante insomma presenta quella tipica tendenza a sostituire al reale una rappresentazione fittizia della realtà, prodotto di una cultura che, inconsapevole dei propri limiti, tende a confondere le astrazioni concettuali con la conoscenza della realtà effettiva. Una cultura cioè che utilizza parole separate dalle cose, pur nella convinzione propria dell’intellettuale di aderire al vero e di conoscerne e rappresentarne le dinamiche. È quanto, ad esempio, viene significato da Manzoni quando, nel cap. XXVIII cita, con la consueta dissimulazione ironica, il “famoso sonetto” di Achillini, per poi dichiarare che, se nella storia si trovano dei fatti conformi ai suggerimenti di un poeta, ciò deve essere avvenuto per un puro caso; oppure quando, nel cap. XXVII, viene descritto l’impossibile dialogo fra Agnese e Renzo per il tramite di “letterati” che alterano e stravolgono le intenzioni comunicative dei due analfabeti. Ma soprattutto risulta estremamente illuminante per illustrare la tematica di cui si fa portatore il personaggio di Don Ferrante, fare riferimento a quanto è contenuto nell’incipit del cap. VI del tomo IV del Fermo e Lucia, un passo che testimonia la presenza della questione già all’altezza della prima versione del romanzo. Qui, in termini espliciti e dichiaratamente polemici, viene esposta la radicale opposizione fra l’accadere reale e le norme artificiali dell’invenzione e della cultura:

 

Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all'invenzione, procedono con tutt'altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare.

Sarà proprio con questa separazione fra “parole” e “cose” che dovrà fare i conti, in prima persona, il povero don Ferrante.