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Vittorini, “Conversazione in Sicilia”: riassunto e analisi

Introduzione

 

Conversazione in Sicilia è un romanzo di Elio Vittorini, apparso a puntate sulla rivista «Letteratura» tra il 1938 e il 1939 e pubblicato in volume da Bompiani nel 1941. Si tratta del romanzo-manifesto dell’impegno etico e civile dell’autore (che fu fascista “di sinistra”), sebbene il messaggio rivoluzionario sia nascosto dietro un linguaggio estremamente letterario, ispirato ai silenzi e alle ombre di una Sicilia insolita, invernale e montagnosa. Vittorini, siciliano emigrato al nord, racconta la propria terra, di cui riscopre le terribili condizioni di vita, e la trasforma in una metafora del mondo intero e dell’esistenza collettiva.

 

Riassunto             

 

Silvestro (protagonista del romanzo e creazione autobiografica), è in preda ad “astratti furori”, ovvero a un senso di inerzia e impotenza di fronte alle sofferenze del genere umano, che richiederebbero invece un impegno attivo. Una lettera del padre, che annuncia di aver lasciato la madre per un’altra donna, trasforma quest’inquietudine in nostalgia per la propria terra, abbandonata quindici anni prima. Il 6 dicembre, antivigilia del compleanno della madre, Silvestro decide così di salire sul treno che lo condurrà nel piccolo villaggio di montagna dove ancora abita la donna.

Fin dal treno cominciano gli incontri che comporranno l’esperienza di questo “ritorno”, tra i quali spicca il Gran Lombardo 1, così chiamato per i modi autorevoli e l’apparenza fisica: in quello che appare come un dialogo filosofico, questi espone il principio etico che, nel finale, libererà Silvestro dagli “astratti furori”. Il Gran Lombardo, infatti, sostiene la necessità che l’uomo non si limiti ai propri privati doveri ma se ne assuma di nuovi, da contrarre con gli altri, per mettere in pace la propria coscienza.

Arrivato al paese natale, dove resterà un solo giorno, Silvestro fa visita alla madre Concezione, donna orgogliosa eppure fragile nelle sue contraddizioni. Prima, in casa, i racconti incerti della donna riaccendono la memoria di Silvestro, ma producono anche nuove immagini che trasfigurano i contorni del ricordo. Poi, il protagonista accompagna la madre nelle case in cui fa da infermiera ai malati di malaria e tisi: qui ha luogo un’esperienza rivelatrice, perché la vista della sofferenza di uomini e donne rassegnati e indifesi suscita una riflessione sull’intero genere umano. Queste persone rappresentano il “mondo offeso”, cioè la parte di umanità che viene quotidianamente oppressa e affronta con rassegnazione il proprio destino. Questa considerazione trova ulteriore sviluppo nel confronto tra Silvestro e alcuni uomini del paese, come l’arrotino Calogero, il panniere Porfirio, il locandiere Colombo ed Ezechiele. Quest’ultimo, in particolare, insiste sulla necessità di imparare a soffrire per il mondo offeso, invece che per i propri personali dolori: solo in questa solidarietà compassionevole l’uomo troverà la forza per ribellarsi all’oppressione.

A notte inoltrata, rientrando verso casa, Silvestro, forse ubriaco, si ritrova nei pressi del cimitero: qui viene sorpreso dalla voce del fratello Liborio, che gli racconta di essere partito soldato per conoscere il mondo e di essere morto in guerra. Al risveglio, in una mattina lugubre, la madre riceve la notizia dell’effettiva morte del figlio. Prima di partire Silvestro s’incammina verso il monumento ai caduti, dietro di lui tutte le persone incontrate lungo il viaggio: qui si abbandona al pianto del ricordo, rivolto a tutti gli offesi che non appartengono più al mondo. In questo pianto Silvestro trova la forza per lasciare una Sicilia “fuori dal tempo” e fare ritorno alla vita attiva.

 

Un romanzo allegorico

 

Il viaggio di Silvestro in Sicilia si configura come un “ritorno alle origini” del genere umano. Le condizioni di povertà materiale degli abitanti del paese natale e il recupero di alcuni episodi ignoti del passato familiare contribuiscono a determinare questo effetto. L’immobilità “mitica” in cui è immersa la Sicilia consente di fare astrazione dei suoi caratteri specifici per inserirli in un discorso “universale”. Grazie anche a una scrittura dalla forte componente lirica (si è parlato a proposito di poesia in prosa, cioè di uno stile fortemente indebitato nei confronti del lessico e della sintassi elevata della versificazione), ricca di immagini pregnanti e allusive, il resoconto del viaggio si trasforma così in un racconto allegorico, in cui ogni personaggio assume una funzione che lo trascende. Accade così nel confronto tra il padre e il nonno materno: il primo è figura del sognatore irresponsabile e inetto, pronto a piangere di fronte alle difficoltà; il secondo, invece, come il Gran Lombardo, viene celebrato dalla madre come modello dell’uomo che affronta con fierezza le “offese” della vita. La madre, poi, incarna una femminilità energica e orgogliosa, votata spontaneamente alla cura degli altri: i propri figli, i malati e, nel finale, anche il marito ritornato a casa, che fino a quel momento era stato ripudiato.

Di fronte a questa umanità povera e umile, retta da rapporti elementari e contraddittori, Silvestro elabora una teoria secondo la quale il genere umano si dividerebbe in due: “uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato” 2. Per Vittorini sono gli “offesi”, gli ultimi della scala sociale, a essere portatori della vera virtù, e a loro è rivolto il monito di questo libro, che incita ogni uomo che si senta oppresso e umiliato a non cercare di farsi a sua volta “oppressore” (come l’arrotino, che prova a imbrogliare Silvestro), ma piuttosto a condividere le sofferenze altrui, a farsene carico per liberarsene definitivamente. A esporre questo messaggio di solidarietà umanistica è Ezechiele:

Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua a essere offeso 3.

Altri personaggi propongono soluzioni concrete a questo problema: l’arrotino Calogero, che incarna l’ideologia rivoluzionaria, vorrebbe affidarsi alla violenza fisica, mentre il panniere Porfirio, che rappresenta il pensiero cattolico, vorrebbe lavare le piaghe dell’umanità con il potere purificatore dell’“acqua viva”. Pur senza indicare una strada precisa, con questo romanzo politico, scritto quando sull’Europa incombe la minaccia della guerra (dalla guerra di Spagna agli albori della Seconda Guerra Mondiale), Vittorini va incontro ai rischi della censura (che lo obbligò anche a rendere il testo più impervio ed enigmatico del necessario) per affidare alle classi colte, uniche a poterne cogliere il senso profondo, un forte appello a un’opposizione umanitaria integrale.

 

Bibliografia:

E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Milano, Rizzoli, 1988.
V. Spinazzola, “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, in Letteratura italiana. Le opere, a cura di A. Asor Rosa, vol. IV, Il Novecento, II. La ricerca letteraria, Torino, Einaudi, 1996, pp. 407-427.
E. Esposito, Elio Vittorini. Scrittura e utopia, Roma, Donzelli, 2011.

1 Si tratta dello stesso nome utilizzato da Dante Alighieri nel diciassettesimo canto del Paradiso (vv. 70-72: “Lo primo refugio e ‘l primo ostello | sarà per la cortesia del gran Lombardo | che ‘n su la scal porta il santo uccello”) fa pronunciare all’avo Cacciaguida quando questi gli profetizza il dolore dell’esilio. Il riferimento dantesco è a Bartolomeo della Scala, signore di Verona dal 1301 al 1304.

2 E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Milano, Rizzoli, 1988, pp. 249-250.

3 Ivi, pp. 287-288.