Il "De vulgari eloquentia" di Dante: riassunto e analisi del testo

Spiegazione e commento del De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri, a cura di Andrea Cortellessa.

Il De Vulgari Eloquentia è un'opera filosofica e dottrinaria elaborata da Dante negli stessi anni della stesura del Convivio (1303-1304). Se, tuttavia, quest'ultimo era concepito nelle intenzioni dell'autore come una sistemazione generale del sapere del suo tempo, il De Vulgari è, invece, dedicato a un tema particolare: quello della lingua, e quindi delle strutture retoriche e della letteratura.
Si può dire che con questo libro, Dante cominci la storia della letteratura italiana, di cui egli racconta le vicende su un piano geografico, più che storico. Protagonista dell'opera è la lingua volgare, che viene definita dall'autore: 1) cardinale, perchè deve essere comune tra tutti gli abitanti della penisola; 2) aulico, perchè sia parlato anche nella corti più nobili; 3) curiale, perchè le sue regole devono essere fissate dalla "Curia", cioè l'insieme dei saggi e dei sapienti d'Italia.
Proprio per giustificare l'adozione del volgare e far sì che questa scelta venisse compresa dai suoi interlocutori, Dante scrive il suo trattato in latino, seguendo le regole più severe della trattatistica del suo tempo, in particolare quella retorica (Ars Dictaminis).

L'opera avrebbe dovuto comporsi, da quanto si capisce, di quattro libri; Dante si fermò, tuttavia, al quattordicesimo capitolo del secondo libro, probabilmente per cominciare la stesura della sua opera maggiore: la Divina Commedia, esempio non più teorico della forza stilistica del volgare.
Nel decimo capitolo del primo libro, Dante scrive una vera e propria cartina linguistica dell'Italia, che parte da Sud ed arriva a Nord. Nel sedicesimo, la nuova lingua viene metaforizzata nell'immagine della caccia a una pantera, il cui profumo si fa sentire ovunque ma che non si trova in nessun luogo.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa-Tuttolibri.
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Negli stessi anni del Convivio, quindi nei primi anni di esilio (1303-1304), Dante elabora un’altra opera teorica e dottrinaria. Se il Convivio, nelle sue ambizioni, doveva essere una sistemazione generale del sapere del suo tempo, qui Dante si sofferma invece su un tema particolare: la lingua, quindi le strutture retoriche e la letteratura. Con questo libro, il De vulgari eloquentia, Dante inizia anche la storia della letteratura italiana, una letteratura che era appena nata, di cui già Dante comincia a raccontare le vicende e significativamente le racconta, visto che la storia è molto recente, analizzandole più sul piano geografico che non su quello storico.

Il De vulgari eloquentia è un’opera con cui Dante vuole soprattutto giustificare l’adozione del volgare italiano nonché il globo del latino dottrinario e teorico; in particolare, intende rintracciare la variante più nobile del volgare italiano, il quale viene definito: 

cardinale perché deve essere comune o deve poter essere messo in comune tra tutti gli abitanti della penisola;“aulico”, cioè si può parlare anche nella corte più nobile, più alta, quella che nelle speranze dei cittadini d’Italia prima o poi avrebbe riunito i popoli italiani in un unico stato;“curiale” perché le regole di questo volgare dovevano essere fissate dalla curia, dall’insieme dei saggi e dei sapienti d’Italia

Proprio per giustificare l’adozione del volgare e far sì che questa scelta venisse compresa dai suoi interlocutori, questa volta Dante scrive il suo trattato in latino. Il latino di Dante segue le regole più severe della trattatistica del suo tempo, cioè la trattatistica medievale, e in particolare della trattatistica retorica (Ars Dictaminis). Il De vulgari eloquentia, così come il Convivio, ci giunge incompiuto perché avrebbe dovuto comprendere almeno quattro libri, mentre Dante si interrompe al quattordicesimo capitolo del secondo libro. La ragione di questa interruzione dipende evidentemente dal fatto che in quel momento subentra l’idea di mostrare le virtù e la forza letteraria del volgare non più a livello teorico, cioè descrivendole dall’esterno, ma in corpore vili, cioè con la composizione del grande poema, con l’inizio della composizione dell’Inferno. Dante è il primo storico della nostra letteratura e al contempo, nel De vulgari eloquentia, fonda anche molti di quelli che sono i connotati della nostra identità nazionale, a partire da quello che è ancora oggi un vero topos: al di là della frammentazione politica che in forme diverse ha connotato l’Italia in tutte le sue epoche, la vera identità nazionale è data dalla sua lingua, dall’unità linguistica, da quella che Dante definisce la “lingua del sì”, in parallelo e in simmetria con la lingua d’Oc e la lingua d’Oïl, cioè i diversi modi in cui si affermava “sì” nel sud e nel nord della Francia. 

La storia della letteratura, la ricerca della lingua illustre, della lingua cardinale, aulica e curiale, ma al contempo della più vera identità letteraria che fonda questa lingua, essendo una tradizione recente, Dante sceglie di raccontarla con un metodo più geografico che storico: descrive l’immagine geografica dell’Italia, scrive una vera e propria cartina linguistica dell’Italia (X capitolo del I libro); una cartina linguistica della penisola che parte da sud perché l’inizio della nostra letteratura è nella scuola di Federico II in Sicilia e man mano “scende” verso nord. Dante, inoltre, sottolinea un aspetto che raramente viene considerato, ma che è molto importante, cioè i due versanti geografici: il versante destro, che nella prospettiva rovesciata della cartina corrisponde all’ovest, alla dorsale tirrenica e il versante sinistro che invece, sempre nella prospettiva rovesciata, corrisponde all’est e quindi al versante adriatico della penisola. In questo modo, passa in rassegna i quattordici volgari, le quattordici principali varianti del volgare italiano. 

La splendida metafora che Dante utilizza nel XVI capitolo del I libro per questa ricerca del volgare illustre e perfetto, che poi inevitabilmente verrà scelto nel volgare della sua città (Firenze), è quella della caccia a una pantera, una pantera “redolentem ubique et nec apparentem”, cioè il cui profumo si fa sentire ovunque, ma che non si trova in nessun luogo.