6'

Dante e lo sperimentalismo delle rime petrose

Introduzione Lo sperimentalismo dantesco

La sezione più affascinante e celebre delle Rime dantesche è senz’altro il ciclo delle cosiddette “petrose”, attribuibile al periodo 1296-1298. Questi quattro testi sono associati in primo luogo dal tema, l’amore per una donna aspra e crudele, il cui nome (o forse, alla provenzale, si dovrebbe pensare a un senhal) è per l’appunto Petra. A confermare la coerenza del ciclo, il nome Petra torna in rima in tutti e quattro i testi, quasi come una sorta di suggello: la pietra, infatti, non è solo metafora della durezza della donna, ma anche dell’impietrimento che coglie l’uomo, del devastante impatto di un amore tormentato su tutte le sue finzioni biologiche. Un ulteriore tratto comune tra i quattro testi è però la coerenza stilistica: in base al principio della convenientia medioevale, per cui argomento e livello dello stile debbono corrispondere, un amore insieme duro e passionale deve essere associato a una dimensione espressiva aspra. Il modello dantesco è dunque Arnaut Daniel, il grande lirico provenzale cultore del trobar clus, ossia una poesia particolarmente complessa e oscura, nonché di alta densità metaforica ed erotica, che ha la funzione proprio di esprimere l’angoscia amorosa.

 

Il testo più celebre dei quattro è la canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro; una sorta di testo programmatico nell’esplicitare la volontà di adeguare il proprio stile alla “durezza” e alla “natura cruda” della donna. Così si spiega la sequenza di rime pluriconsonantiche, tra le quali ad esempio -aspro, -etra, -erma, -ezzi, -orza. Ma Così nel mio parlar voglio esser aspro è eccezionale anche perché - pur essendo solo una descrizione delle reazioni psicologiche di fronte alle asprezze della donna Petra, e non il racconto di azioni e fatti reali - è un testo fortemente “visivo”, con la menzione di una quantità di oggetti e gesti davvero insolita per la lirica delle origini: tutte metafore che esprimono l’ossessione erotica e il travaglio mentale del poeta. Altrettanto insolita, rispetto all’orizzonte poetico del tempo, è la stretta connessione “narrativa” tra le varie stanze della canzone che permette di costruire un unico delirante racconto, evitando invece l’autonomia lirica e logica di ogni stanza come tipico nella canzone tradizionale. Non a caso in questo testo si trovano due elementi unici per le canzoni d’amore delle origini: l’insistenza sul desiderio di possesso sessuale e di “vendetta” (parola con cui significativamente termina il testo al v. 83).

 

Questa dimensione di lotta e di violenza esplicita manca in realtà negli altri tre testi del ciclo. Così nel mio parlar voglio esser aspro si distingue dalle altre rime petrose però soprattutto perché è priva del tema invernale che le caratterizza. In queste, infatti, il gelo dell’inverno è l’elemento centrale sotto molteplici aspetti: in primo luogo comporta il ribaltamento del tema, topico per la lirica, della primavera come momento della rinascita dell’amore; inoltre serve a marcare la solitudine del poeta, unico a essere preda di un amore violento quando esso in tutti gli altri esseri si attutisce; ancora, accentua la tragicità della condizione del poeta poiché questi già prevedere quale devastante forza avrà il suo amore al ritorno della primavera. Infine, naturalmente, freddo e ghiaccio sono metafora della rigidità della donna “petra”, e tutte le immagini naturali comunicano per analogia i sentimenti del poeta. La crudezza del gelo (ulteriore elemento derivato direttamente da Arnaut Daniel, a conferma di come tema, immaginario, musicalità in tale genere si accordino tra loro), però, è anche il correlativo visivo delle sonorità aspre di tutte le rime petrose.

 

Ancora più insistita è l’immagine dell’inverno nella canzone Io son venuto al punto de la rota; in questo caso, infatti, il tema invernale viene trattato nelle cinque stanze affrontando aspetti sempre differenti: la disposizione astronomica, le intemperie, gli effetti sulle piante, le reazioni di animali e uccelli, le acque. L’asprezza del clima diventa dunque un simbolo esistenziale, quasi cosmico, del continuo martirio d’amore del poeta, della dolorosa immutabilità del suo sentimento. Questa canzone, inoltre, presenta un ulteriore elemento eccezionale per la lirica, ossia una componente tecnico-scientifica specie per quanto riguarda (nella prima stanza) l’indicazione del momento dell’anno attraverso precisi riferimenti alla disposizione di stelle e pianeti.


L’asprezza del tema però, nelle petrose, si proietta nella ricerca di un’ulteriore difficoltà formale, questa volta nella metrica. Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra è difatti una sestina, una forma metrica particolarmente complessa – inventata proprio da Arnaut Daniel e introdotta in Italia da Dante – costituita da sei stanze di sei endecasillabi e un congedo di tre. L’aspetto particolare è che la sestina si regge non sulle rime, ma su parole-rima: le sei parole che chiudono i sei versi della prima stanza (e che non rimano tra di loro: ombra - colli - erba - verde - petra - donna) tornano in ognuna delle stanze successive. La difficoltà è accresciuta dal fatto che la collocazione delle sei parole-rima non è libera, ma ubbidisce a un complesso principio di collocazione (detto della retrogradatio cruciata, o retrogradazione incrociata). L’esito, quindi, è un’estrema complessità tecnica, ma anche – poiché le parole-rima sono le stesse sei per tutto il testo – una certa immobilità di immagini, che produce quella che è stata definita “allucinazione”.

 

Ancora più ardita – tanto che non sarà mai più tentata – è la struttura di Amor, tu vedi ben che questa donna, la più complessa delle petrose, che si presenta come un lungo monologo diretto ad Amore, in cui – quasi scientificamente – stanza per stanza vengono analizzati gli effetti psicologici e fisiologici sul poeta della crudeltà della donna, arrivando quasi a delineare quello che è stato definito un “scenario cosmico, astrale” della sofferenza d’amore. Formalmente Amor, tu vedi ben che questa donna è una canzone, ma – come per la sestina, e infatti si è parlato di “sestina doppia” – il principio è sempre quello delle parole-rima. In tutto il testo ci sono infatti solo cinque parole-rima (donna - tempo - luce - freddo - petra) che ritornano più volte nei dodici versi di ogni singola stanza, con collocazione che, in ogni stanza, muta secondo una rotazione matematica. La rigorosa fissità delle parole in rima contribuisce a rafforzare le idee costanti del ciclo: freddo, crudeltà, sofferenza e tragica assolutezza dell’amore.

 

L’effetto complessivo è quello di un ciclo dai tratti fortemente riconoscibili, ed estremamente coerente in tutti i suoi aspetti. Non a caso Dante nel suo De vulgari eloquentia citerà diverse volte i testi petrosi per esemplificare alcuni particolari elementi di metrica e stile. Un’esperienza poetica sperimentale che Dante recupererà nelle sezioni più “petrose” della Commedia, in particolar modo nella parte conclusiva dell’Inferno. Non a caso il canto XXXII della prima cantica comincia con una vera e propria dichiarazione di poetica (“S’io avessi le rime aspre e chiocce”), per molti versi affine all’incipit di Così nel mio parlar voglio esser aspro.

Bibliografia essenziale:

 

Rime, a cura di M. Barbi, in Opere, Società Dantesca Italiana, Firenze, Bemporad, 1921.

 - Rime, a cura di G. Contini, in Opere minori, Milano. Napoli, Ricciardi, 1984.