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La crisi del ‘29 e la Grande depressione: riassunto

Introduzione

Il 24 ottobre 1929, giorno noto anche con l’emblematico nome di “giovedì nero”, alla Borsa di New York vengono scambiati 13 milioni di titoli e anche nei giorni successivi le vendite continuano incessantemente. Questa corsa alle vendite causa un repentino crollo del valore dei titoli, colpendo l’economia statunitense e tutte quelle che ad essa sono collegate. Il “giovedì nero” rappresenta una data simbolica per identificare una crisi economica che ha radici lontane e che si protrarrà per diversi anni.

 

L’economia statunitense negli anni ‘20

Superati i difficili anni successivi alla Prima guerra mondiale, l’economia statunitense comincia a crescere dando avvio ad un periodo di grande prosperità. In questi anni si diffonde il taylorismo 1, che partendo dallo studio del lavoro in fabbrica ne propugna una maggiore organizzazione per migliorarne l’efficienza. L’esempio più noto di questo nuovo metodo industriale è rappresentato dall’azienda automobilistica Ford, che riorganizza il lavoro in fabbrica con l’introduzione, nel 1913, della cosidetta catena di montaggio. È del resto proprio l’industria dell’automobile che guida la grande crescita economica, perché il mercato dell’auto trascina altri settori come la metallurgia, la raffinazione del petrolio e quello delle grandi costruzioni civili, legato alla necessità di nuove strade e ponti. Le innovazioni introdotte nel sistema produttivo portano l’economia statunitense a crescere a un ritmo molto sostenuto lungo tutti gli anni ’20, anche se all’aumento di produttività si associa una diminuzione dell’occupazione nelle fabbriche legata proprio alle innovazioni tecnologiche che ne razionalizzano il processo produttivo; nello stesso periodo, aumenta il numero degli occupati nel settore dei servizi, a significare appunto l’innalzamento del tenore di vita della classe media 2.

Gli anni ’20 nella politica USA sono segnati dall’egemonia del partito repubblicano che propugna una politica economica di tipo liberista, mantenendo la spesa pubblica a livelli molto bassi. Viene favorita la nascita di grandi corporations e l’accumulazione di ricchezza privata, mentre non vi è grande attenzione verso le classi socialmente più svantaggiate, rappresentate in particolar modo dagli operai comuni, dagli immigrati e dalle persone di colore. Si costituisce in questi anni una forte sperequazione nella distribuzione dei redditi, caratterizzata da un aumento dei salari molto inferiore rispetto a quello dei profitti.
La borghesia americana è pervasa da uno spirito di ottimismo, generato dalla fiducia di una crescita continua e potenzialmente illimitata della ricchezza. Tale euforia collettiva alimenta la crescita economica per tutti gli anni ’20 e favorisce una grande attività presso la Borsa di New York - chiamata Wall Street dal nome della via in cui si trova tuttora - dove le operazioni speculative aprono alla prospettiva di facili guadagni. In particolare, si diffonde la pratica dell’acquisto di azioni a credito, oltre che la vendita a rate dei beni di consumo, alimentando la diffusione di una “economia di carta” sempre più slegata da quella reale: la gran massa di azioni circolanti altera l’economia reale ingigantendo il valore delle aziende a prescindere dalla loro realtà industriale, così che la grande crescita economica poggi in realtà su basi assai fragili. Inoltre, la produzione delle aziende americane è decisamente sovrabbondante per il pur ricettivo mercato interno, e va così da alimentare le esportazioni verso l’Europa. Le due economie risultano sempre più interdipendenti: le banche private statunitensi finanziano la ripresa postbellica in Europa, mentre a sua volta il vecchio continente, con le importazioni di beni, finanzia lo sviluppo industriale e il fiorente mercato degli USA.
Nel 1928 in questo sistema iniziano ad intravedersi le prime crepe. Oltre alla distribuzione del reddito sempre più diseguale, si segnala l’aumento dell’inflazione che porta il ceto medio a perdere il proprio potere d’acquisto: come prima conseguenza, i magazzini delle fabbriche e delle industrie statunitensi si riempiono di merce invenduta. Allo stesso tempo, i maggiori investimenti in Borsa delle banche tolgono capitali al finanziamento delle economie europee, che a loro volta diminuiscono gli acquisti di beni statunitensi.

 

La crisi e la sua diffusione

Dopo le avvisaglie dell’anno precedente, nel settembre del 1929 a Wall Street si avvertono le prime avvisaglie della crisi, con un iniziale caduta della Borsa; tuttavia la situazione torna velocemente ad una apparente normalità e il pericolo appena scampato non ferma le speculazioni finanziarie.
Si arriva così al 24 ottobre del 1929, passato alla storia come il “giovedì nero”, giorno in cui si determina una grande corsa alle vendite dei titoli, che ne fa precipitare improvvisamente il valore: questi eventi svelano chiaramente le fragilità del sistema. Le vendite continuano anche nei giorni e nelle settimane seguenti: il martedì successivo - il 29 ottobre, anch’esso ricordato come “nero” - la Borsa brucia 24 miliardi di dollari, la metà del suo valore, e solo a metà novembre le quotazioni ritornano stabili.
Intanto però milioni di americani hanno perso i loro risparmi e il crollo della Borsa ha trascinato nel baratro l’economia dell’intero paese. Si assiste infatti allo sviluppo di un circolo vizioso: coloro che avevano acquistato beni quali automobili, case o elettrodomestici tramite l’utilizzo di prestiti bancari si trovano sul lastrico, ma d’altro canto le forme di pagamento a rate hanno costituito uno dei fattori trainanti della crescita, in quanto hanno sostenuto la macchina produttiva anche al di sopra delle capacità di assorbimento del mercato. Il crollo delle possibilità d’acquisto della classe media determina una forte restrizione del mercato, che a sua volta conduce ad una diminuzione della produzione e di conseguenza alla chiusura delle fabbriche e all’aumento della disoccupazione. Milioni di persone perdono il lavoro e la situazione sociale diviene drammatica: si registrano numerosi suicidi per la disperazione di aver perso tutto, mentre la povertà cresce esponenzialmente 3.

La crisi si diffonde rapidamente anche all’estero e in particolare in Europa, dove le economie nazionali sono fortemente interconnesse con quella statunitense. Da parte loro gli Stati Uniti cercano di difendere la loro produzione introducendo misure protezionistiche e sospendendo il credito nei confronti dei paesi esteri: l’effetto di queste misure però è l’opposto di quello auspicato, poiché conducono ad un’ulteriore contrazione del commercio mondiale. Nel Vecchio continente la crisi di Wall Street ha conseguenze gravi in particolare in Germania e in Gran Bretagna, due paesi molto legati agli USA. Dopo la guerra e le pesantissime clausole del Trattato di Versailles la Germania e la Repubblica di Weimar erano state rimesse in moto dai piani di salvataggio americani Dawes e Young; tuttavia, l’ingente introito di capitali americani rende l’economia tedesca strettamente dipendente da quella americana. Con il tracollo azionario del 1929, in Germania e in Austria il sistema bancario collassa, dando il via ad una gravissima crisi monetaria e ad una inflazione galoppante. Il crollo dell’economia tedesca e la conseguente diffusione della disoccupazione costituiranno due elementi fondamentali per la propaganda del Partito nazista di Adolf Hitler, che salirà al potere nel 1933.

Anche la Gran Bretagna deve fare i conti con la recessione: la sua spiccata vocazione commerciale e i suoi cospicui investimenti sia negli Stati Uniti sia in Germania la espongono infatti alle conseguenze dei giorni “neri” della Borsa di New York. L’allarme sulla solidità delle finanze inglesi che provoca un crollo della sterlina e molti investitori richiedono la conversione della moneta inglese in oro finché - una volta esaurite le riserve auree della Banca di Inghilterra - nel settembre del 1931 viene sospesa la convertibilità della sterlina e la moneta inglese viene fortemente svalutata. A questo punto anche altre nazioni europee si trovano costrette a svalutare la propria moneta per non far perdere competitività alle loro merci: di fatto la conseguenza più evidente della crisi è una drastica riduzione del commercio mondiale e la spinta parallela alla creazione di mercati nazionali protetti e il più possibile autosufficienti. La crisi si diffonde in tutto il mondo, con l’eccezione dell’URSS stalinista, colpendo tutti i settori, anche l’agricoltura, che non trova più sbocco per la propria produzione di beni.

La classe politica europea si trova sostanzialmente impreparata all’evento e lo affronta con gli strumenti classici, vale a dire perseguendo il pareggio di bilancio, tagliando il più possibile la spesa pubblica e aumentando le tasse. Queste misure non fanno però che peggiorare la crisi del mercato interno e far crescere ulteriormente la disoccupazione, aggravando così la situazione sociale di milioni di persone che hanno perduto ogni fonte di reddito e ogni speranza di un futuro migliore. Anche negli USA la politica non riesce a rispondere subito in maniera efficace a questa grande crisi: il presidente Hoover perde completamente credibilità e non riesce a far uscire il paese dal clima di incertezza che lo pervade. La situazione resta gravissima almeno fino al 1932, anno in cui negli USA si calcola che il 75% degli americani soffra la fame 4. La vera svolta, anche in termini di fiducia e speranza, si avrà nel 1933 con la vittoria alle elezioni presidenziali di Franklin Delano Roosevelt, che si impegnerà fin da subito per la ripresa del paese, inaugurando una nuova politica economica e sociale che prenderà il nome di New Deal.

1 La teoria prende il nome dall’ingegnere che l’ha concepita, Frederick Winslow Taylor (1856-1915), le cui ricerche si concentrano analiticamente sulle tecniche e le procedure per migliorare l’efficienza del lavoro industriale e incrementare la produttività del singolo operaio.

2 L’atmosfera di benessere, felicità e ottimismo della cosiddetta “età del jazz” di questo periodo (prima del crollo del 1929) verrà immortalata, ad esempio, ne Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, il cui protagonista incarna appunti i miti ma anche le contraddizioni latenti di un’età di grande crescita economica.

3 La crisi del paese si riflette anche in famose opere letterarie come Uomini e topi (1937) e Furore (1939) di John Steinbeck, che descrivono appunto la vita di chi, appartentente agli strati più bassi della popolazione, è costretto a migrare per cercare migliori condizioni di vita e di lavoro. Il tema della crisi e della “grande depressione” si ritrova anche ne L’urlo e il furore (1929) di William Faulkner.

4 In Europa si dovrà aspettare il 1933 per un inizio di ripresa, anche se sarà solo con il decennio successivo che l’intero continente uscirà pienamente dalla crisi.