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“I mari del sud” di Pavese: analisi del testo

Primo testo di Lavorare stanca (che si apre appunto con la sezione Antenati, il cui soggetto è la campagna e il cui titolo è emblematico per la linea di ricerca pavesiana), I mari del sud è un componimento lungo (centodue versi) in cui convergono e si riassumono molti temi del Pavese poeta e narratore tra anni Trenta ed anni Quaranta. Il testo si apre su note spiccatamente autobiografiche: la dedica “a Monti” (Augusto Monti, professore liceale che larga parte ha avuto su gusti ed inclinazioni letterarie del giovane Cesare) e l’incipit con un verbo plurale (“Camminiamo una sera sul fianco di un colle | in silenzio”) non introducono però un “io” in soliloquio lirico con se stesso, ma piuttosto aperto al dialogo, seppur questo sia difficile e sempre precario. La centralità del confronto con gli altri è testimoniato dalla breve scena narrativa iniziale: figura di riferimento per il poeta-protagonista è quel “gigante vestito di bianco | [...] abbronzato nel volto, | taciturno” che, tornato da un lungo viaggio d’emigrazione oltreoceano, condivide con lui la virtù del “silenzio”, quasi inscritta nel patrimonio genetico di famiglia. Eppure, ora, il cugino cerca un contatto umano, una possibilità di confessione a due:

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. [...]

Prende avvio da qui l’andamento narrativo di Mari del sud, che s’appoggia  sui versi liberi lunghi, funzionali allo sviluppo del confronto tra il poeta e il cugino. Entrambi hanno il profilo degli sradicati: l’uno inurbato a Torino, l’altro tornato da una lunga (e quasi leggendaria) peregrinazione intorno al mondo. Tuttavia, il senso delle loro radici non si è perduto: “Le Langhe non si perdono” come ammette il cugino nel suo “scabro” dialetto, mentre agli occhi del protagonista il suo “sguardo raccolto” ricorda quello che vide, da “bambino [...] ai contadini un poco stanchi”. Lo sguardo pavesiano trasfigura cioè questo esponente di un mondo perduto circondandolo di un’aura mitica; la sua fuga volontaria dal microcosmo rurale della campagna (descritta nella terza strofe) diventa il vero motivo di fascino per questa figura di “irregolare”, con cui il poeta sotterraneamente vorrebbe identificarsi ed immedesimarsi:

Vent'anni è stato in giro per il mondo.
Se n' andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.

Al tema del ricordo e della proiezione immaginifica si associa sempre (com’è tipico per la visione del mondo di Pavese) il senso di una drastica esclusione: i ricordi d’infanzia (“Oh da quando ho giocato ai pirati malesi, | quanto tempo è trascorso. [...] Altri giorni, altri giochi, | altri squassi del sangue dinanzi a rivali | più elusivi: i pensieri ed i sogni”) si contrappongono subito all’angoscia ispirata dal mondo di città, in cui il personaggio principale vive da escluso:

La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Se allora il mondo mitico evocato dal ritorno del cugino è tanto affascinante quanto sfuggente ed inafferrabile, anche questo gigante (la cui altezza è un ulteriore elemento di diversità) soffre la legge di esclusione da quell’universo da cui egli stesso aveva voluto fuggire. Il ritorno nelle Langhe e il fallimento dei suoi investimenti economici sono amaramente sintetizzati dalle parole stesse del personaggio, che commenta:

"Ma la bestia"  diceva "più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza"

Il lungo confronto tra i due (“Camminiamo da più di mezz’ora”) riconosce dunque - a ulteriore indizio della complessa articolazione de I mari del sud, intessuto di rimandi a Faulkner, Whitman e a Lee Masters, autore della Antologia di Spoon River - la sottile distanza che corre tra i due personaggi; il cugino stesso, proprio in virtù della sua esperienza di vita, rifiuta le illusioni del mito (“Mio cugino non parla dei viaggi compiuti. | Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro | e pensa ai suoi motori”), di cui invece si nutre lo scrittore. È come se il poeta potesse narrare la vita immaginata del cugino solo attraverso un filtro, che però costituisce di per sé una deformazione dell’esperienza stessa, con conseguente aumento del senso di estraneità di chi scrive. Così, alla scena quasi tratta da Moby Dick (che Pavese aveva tradotto nel 1930) della penultima strofe seguono i pochi versi conclusivi, dove si palesa tutta la distanza tra il mito letterario e la realtà concreta cui si riferisce più prosaicamente il cugino:

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.

Ma quando gli dico
ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

Il confronto tra mito e realtà, tra partecipazione ed esclusione, è allora alla base de I mari del sud, che vede confermato la propria importanza anche sotto l’aspetto tecnico-formale: la scelta della versificazione libera (pochi sono gli endecasillabi rintracciabili in tutto il componimento) si adatta all’idea pavesiana di una poesia che confini col racconto, e che riproduca, nell’andamento disteso e “lungo” della paratassi, il ritmo della narrazione epico-popolare, spezzata dagli enjambements e modellata sulle riprese anaforiche di singole parole-chiave piuttosto che sulla musicalità della rima, qui pressoché assente. Innovativa anche la scelta contenutistica: in un clima letterario di pieno Ermetismo, Pavese compie la scelta per certi versi radicale di partire dalla descrizione minima di un mondo concreto per alludere - come disse Calvino a proposito del titolo della raccolta, Lavorare stanca - allo “struggimento di chi non si integra: ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell’amore e delle famiglie, senza armi nel mondo delle lotte politiche cruente e dei doveri civili”.