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Boccaccio, "Re Carlo e le fanciulle": riassunto e commento della novella

Introduzione

Re Carlo e le fanciulle è una delle novelle raccontate durante la decima giornata del Decameron, quando i componenti dell’"allegra brigata" devono fronteggiarsi nel narrare esempi di virtù cavalleresche, con un occhio di riguardo per fatti celebri di “liberalità” dell’animo umano. La vicenda riguardante re Carlo I d’Angiò è un esempio di misura e di buon senso applicato in campo amoroso.

Riassunto

Carlo I d’Angiò 1 infatti, ormai anziano, decide di far visita a Messer Neri degli Uberti, esponente ghibellino che, lasciata Firenze dopo il trionfo delle forze guelfe di Carlo a Benevento, si è ritirato a Castellammare di Stabia, dove ha edificato una meravigliosa villa con giardino e una vasca per l’allevamento dei pesci 2. Il re si presenta a cena dall’ex nemico e i due banchettano magnificamente all’aperto. Dopo le pietanze e del vino, i commensali vengono raggiunti da due meravigliose fanciulle, assai giovani, come il re stesso nota ad un primo sguardo 3. Le due, di bianco vestite, s’immergono nell’acqua del vivaio del giardino per pescare del pesce da servire in tavola e, una volta compiuto il loro dovere, escono dalle acque per ritirarsi in casa. Il re non può fare a meno di ammirare la loro bellezza, mostrata attraverso le vesti bagnate. Dopo una seconda apparizione delle fanciulle il re, ormai totalmente invaghito di una delle due, Ginevra, scopre che si tratta delle figlie gemelle di Messer Neri. Finita la cena il sovrano e il suo seguito tornano all’osteria dove dimorano, ma re Carlo non riesce a smettere di pensare alla bellissima Ginevra.

La passione per la giovane fanciulla s’insinua e cresce a tal punto nell’animo del re da diventare un tormento. Egli allora decide di confidarsi con messer Neri e di chiedergli la mano di entrambe. Messer Neri rimane alquanto stupito e sorpreso dalla proposta del re, e rifiuta offeso, rimproverando a Carlo il mancato rispetto di quelle norme cortesi che hanno spinto lo stesso Neri ad ospitare in casa un vecchio nemico politico, tributandogli comunque tutti gli onori possibili:

“Questo non è atto di re magnanimo, anzi d’un pusillanimo giovinetto. [...] Io vi ricordo, re, che grandissima gloria v’è aver vinto Manfredi e sconfitto Corradino, ma molto maggiore è sé medesimo vincere; e per ciò voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo e questo appetito raffrenate, né vogliate con così fatta macchia ciò che gloriosamente acquistato avete guastare”.

Re Carlo riflette sulle parole dell’amico e ne riconosce immediatamente la ragione, vergognandosi profondamente di come abbia potuto concepire un simile disegno (“Queste parole amaramente punsero l’animo del re, e tanto più l’afflissero quanto più vere le conoscea”). Per rimediare al torto, il re torna a Napoli e marita le due fanciulle con due grandi baroni.

 

La novella di Re Carlo: tra virtù del cavaliere e contesto storico-politico

 

Questa novella ci mostra tutto l’altruismo e la capacità, fondamentale per un vero cavaliere, di dominare e controllare le proprie passioni con forza d’animo. La rinuncia di Carlo I all’oggetto della propria passione senile si inscrive allora nel rapporto che Boccaccio e il Decameron intrattengono con il mondo aristocratico-cortese (che sta per essere progressivamente sostituito dalla nuova società borghese-mercantile di cui l’autore stesso, per ragioni biografiche, fa parte) e con la questione dell’amore. Se quest’ultimo è infatti, nelle cento novelle del Decameron, il principale propellente degli eventi raccontati dai protagonisti della “brigata”, va anche detto che le passioni umane spesso devono essere temperate da altri “valori”, quali appunto il rispetto delle convenzioni sociali della “cortesia” (come spiegato anche in altre novelle quali Ghino di Tacco e l’abate di Clignì).

L’equilibrio tra passioni personali e codici pubblici condivisi è qui ben più importante della situazione storico-politica che (come in altre novelle del Decameron: basti pensare a quella di Guido Cavalcanti nella sesta giornata) viene posta da lato, in maniera non molto dissimile da come la fuga in campagna dei dieci narratori mette tra parentesi il dramma della peste a Firenze. Non conta tanto che Carlo I d’Angio e messer Neri degli Uberti 4 siano stati avversari, quanto che, nonostante ciò, esistano tra loro due dei valori - quale appunto quello di non insidiare le giovani fanciulle o quello di temperare i propri desideri - che sono intimamente superiori. Il rispetto e il controllo di sé sono, non a caso, gli argomenti della “morale” che si può ricavare a fine della novella:

Saranno forse di quei che diranno piccola cosa essere ad un re l’aver maritate due giovinette; e io il consentirò; ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo un re innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver preso a pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Così adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l’amate giovinette laudevolmente onorando, e sé medesimo fortemente vincendo.

In tal senso, l’obiettivo di Boccaccio sembra essere quello di sottolineare quali tra gli ideali cavallereschi devono essere recuperati e conservati gelosamente dalla nuova mentalità, concreta ed affaristica, della classe mercantile in ascesa.

 

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1 Carlo I d’Angiò (1226-1285), figlio di Luigi VIII e fratello del re Luigi IX il Santo, scese in Italia nel 1265 per muovere guerra contro Manfredi di Sicilia, e lo sconfisse a Benevento l’anno successivo. Fu quindi incoronato re di Napoli e di Sicilia. Fu uno dei principali esponenti del movimento guelfo del XIII secolo.

2 Così Boccaccio presenta la villa: “[Messer Neri] comperò una possessione, sopra la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo del quale, a nostro modo, avendo d’acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente”.

3 “E mangiando egli lietamente, e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino entrarono due giovinette d’età forse di quattordici anni l’una, bionde come fila d’oro, e co’ capelli tutti inanellati e sopr’essi sciolti una leggiera ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; ed eran vestite d’un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in su era strettissimo e da indi giù largo a guisa d’un padiglione e lungo infino a’ piedi”.

4 Gli Uberti, tra XII e XIII secolo, furono una delle famiglie ghibelline più potenti e rinomate di Firenze; uno dei suoi esponenti più celebri è Farinata, protagonista di un famoso colloquio con Dante nel decimo canto dell’Inferno.