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Boccaccio, "Ghino di Tacco e l'abate di Clignì": riassunto e commento della novella

Introduzione

 

Ghino di Tacco e l’abate di Clignì è una delle novelle raccontate dall’"allegra brigata" durante la decima ed ultima giornata del Decameron, in cui i giovani narratori presentano esempi di “liberalità”, ovvero l’equilibrata generosità, tipica dei veri signori, nel distribuire beni a chi li merita, o nel trattare con gran cordialità gli altri. Il tema narrativo più generale è allora quello della “cortesia”, talento tipico della classe nobiliare boccaccesca; e Ghino di Tacco sarà proprio un rappresentante esemplare di questa qualità sociale. Egli infatti è un personaggio realmente esistito, celebre tra i suoi contemporanei toscani: Ghino è un bandito dall’animo onesto, che acquista nelle parole del Boccaccio la fama di un eroe positivo e portatore di valori esemplari. La sua storia, narrata da Elissa, è la seconda della giornata conclusiva dell'opera boccacciana.

 

Riassunto

 

Dopo aver perso tutti i suoi averi per ragioni politiche, essere stato espulso da Siena ed essersi ritirato a Radicofani, Ghino si dà al brigantaggio 1. Ladro dunque solo per esigenza, ma gentiluomo nell'animo, Ghino è solito derubare i ricchi che incontra sul suo cammino senza usare violenza e, dopo un periodo di reclusione molto ospitale nel suo castello, lasciarli in libertà con il minimo necessario per poter sopravvivere. Accade così un giorno che Ghino rapisca l’abate di Clignì (uno dei principali centri del monachesimo benedettino medievale, a Cluny, nella regione francese della Borgogna) e, come da prassi, lo porti nel suo castello. Dopo aver scoperto che l’abate si stava dirigendo alle terme di San Casciano a causa di un forte mal di stomaco, decide di curarlo seguendo un suo rimedio personale: ogni giorno gli concede solo razioni molto limitate di pane, fave e vino, favorendo in tal modo la guarigione completa dell'abate.

Così, durante il periodo di prigionia del religioso e del suo seguito, i due uomini hanno l’occasione di confrontarsi e apprezzarsi vicendevolmente, e Ghino racconta all’abate la sua vera storia. Quando l’abate capisce di essere al cospetto di un uomo di saldi principi etici, costretto a quella condotta disdicevole da cause estranee al suo volere, ribalta completamente la propria opinione su di lui, tanto più che, al momento della liberazione, il brigante restituisce al benedettino tutti i suoi beni. Quest'ultimo, una volta tornato a Roma, rivela a Papa Bonifacio VIII la vera indole di Ghino, e convince il pontefice a concedergli la grazia, perdonandolo di tutti i peccati commessi, ma soprattutto a concedere a Ghino il titolo di cavaliere e la prioria dell’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme 2:

Il papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu 3, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse. 

La vicenda di Ghino si conclude così assai positivamente, proprio grazie alla “liberalità” e alla cortesia che egli ha mostrato nei confronti dell’abate; e - coerentemente con il sistema di valori del Decameron e con il concetto boccacciano di Fortuna e ingegno umano - la ricompensa per Ghino (più che di natura spirituale) è un tornaconto socio-economico: la nomina a cavaliere e priore e il recupero del proprio status aristocratico.

 

Ghino di Tacco tra Dante e Boccaccio

 

In questa novella Boccaccio loda allora il valore della cortesia, intesa come quella qualità etica e morale che assicura il rispetto leale tra quegli uomini che, come Ghino e l'abate, condividono un certo repertorio di valori, al di là delle contingenze del momento che possono separarli o porli su schieramenti opposti. Dall’episodio di Ghino (così come da altri celebri del Decameron, come quelli di Federigo degli Alberighi o di Nastagio degli Onesti) traspare parallelamente anche la nostalgia dell’autore per questo sistema etico e relazionale, che Boccaccio sa appartenere ad un altro periodo storico, irrimediabilmente passato e trascorso.

I protagonisti della “allegra brigata” non possono allora fare altro che rievocare, all’interno dello spazio protetto della narrazione e dell’invenzione letteraria, alcune figure emblematiche di questo mondo perduto: una di queste è appunto quella di Ghino di Tacco, nobile senese, “ladro gentiluomo” e protagonista di molte narrazioni (a volte, non tutte concordi) che hanno per tema proprio la sua “liberalità” e la sua cortesia, oltre che la fierezza del suo carattere 4. Queste doti sono trasparenti nelle parole con cui Ghino spiega all’abate perché, una volta guaritolo dall’indisposizione di stomaco, decide di lasciarlo andare restituendogli tutti i suoi beni: 

“[...] Ma per ciò che voi mi parete valente signore 5, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse 6; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro".

Il carattere fiero di Ghino e la sua cordialità con gli ospiti sono aspetti che, per Boccaccio, si implicano vicendevolmente; e l’opinione su Ghino quale brigante magnanimo e dotato di un proprio codice d’onore è condivisa anche da Dante (autore stimatissimo da Boccaccio stesso), che ricorda Ghino in una terzina (vv. 13-15) del canto sesto del Purgatorio. Siamo al secondo “balzo”, dove risiedono le anime dei morti violentemente): 

Quiv’ era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annego correndo in caccia.

E il ricordo nostalgico dei valori cortesi, che costituisce il tema dell’ultima giornata, è ancor meglio sottolineato proprio ricorrendo a figure fortemente radicate nell’immaginario collettivo dei lettori e delle lettrici del Decameron.

 

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1 Secondo le cronache in nostro possesso, Ghino, esponente della famiglia della famiglia Cacciaconti e signore di Fratta, avrebbe ucciso, decapitandolo, un giudice di Arezzo, tale Benincasa da Laterina.

2 Si tratta cioè del prestigioso Ordine dei Cavalieri di Malta (chiamati anche Cavalieri di Rodi), istituito dopo la prima crociata in Terra Santa (1096-1099) per assicurare protezione e le necessarie cure ai pellegrini diretti al Santo Sepolcro.

3 Ovvero: “e non appena fu presso il Papa”.

4 Ecco come ce lo descrive Boccaccio: “Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri”.

5 Cioè, “in possesso dei valori cortesi”, gli stessi di Ghino.

6 Ovvero: “ne dispoerrei come più mi piace”.