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"Adelchi" di Manzoni, atto IV scena III: analisi del monologo di Guntigi

Il monologo di Guntigi nella scena III dell’atto IV, vv. 252 – 320, costituisce uno dei momenti più amari della tragedia, per quanto attiene alla rappresentazioni delle dinamiche spregiudicate e drammatiche che regolano i rapporti fra gli individui nella storia e nella società.

 

Se il monologo di Carlo mostrava gli autoinganni e le ipocrisie con cui il potere nobilita, alla luce di valori religiosi, il perseguimento dei propri interessi specifici che nulla hanno a che fare con la Legge o la Volontà di Dio, le riflessioni di Guntigi denunciano come proprio la falsità con cui gli uomini, in generale, dichiarano di aderire ad alcuni valori morali, avendo in realtà come obiettivo i propri calcoli di interessi, costituisca a sua volta una giustificazione per il singolo nel momento in cui scelga, per la propria egoistica salvaguardia, di trasgredire uno di quei valori etici in cui, appunto solo a parole, comunemente si sostiene di credere. Guntigi, sulle mura di Pavia a difesa della città e del suo re, ha appena rivelato al suo scudiero, Amri, l’intenzione di incontrare il traditore Svarto, innalzato da Carlo “ai primi gradi” proprio in virtù del suo tradimento. Anche Guntigi ha infatti intenzione di tradire e, lasciato solo da Amri, affronta il proprio rimorso e conflitto di coscienza.

È significativo che, poco prima di essere lasciato solo, ai vv. 251-252, il duca longobardo avesse definito “un gran disegno” il tradimento da lui progettato; un’espressione che, non a caso, si ritrova ne Il cinque maggio, al v. 38. Dunque, come si è già osservato a proposito del monologo di Svarto, anche la vicenda di Guntigi rimanda al paradigma offerto, al massimo grado, da Napoleone: la ricerca, l’affermazione, la tutela del proprio “nome”, la forte volontà di quel “darsi un nome” che significa spregiudicata ed orgogliosa affermazione egoistica di sé a discapito degli altri, priorità del proprio vantaggio ed interesse rispetto a qualsiasi valore. 

 

Ma, una volta rimasto solo, Guntigi inizia un dialogo serrato con la propria coscienza per giustificare a se stesso il proprio tradimento. Il suo monologo è un incalzare di interrogativi che denota il suo intimo conflitto. Perché restare fedeli quando tutto si può salvare, cioè quando il singolo, venendo meno ai principi morali, può trarre per sé il massimo profitto? Ed ecco che, proprio come Carlo, anche Guntigi è pronto a servirsi di Dio per assolvere se stesso: Dio ha scelto Carlo e dunque se costui si propone di separare dalla sventura qualcuno, è quasi come se il tradimento ricevesse l’avallo di Dio, e così ancora una volta, Dio è piegato alla logica degli interessi umani, sfruttato come giustificazione del male. D’altra parte, prosegue Guntigi, chi sostiene il valore della fedeltà, lo fa solo perché è colui che ne gode i benefici, e dunque non è disinteressato, bensì si omologa alla generale ipocrisia che domina la società umana. È vero, aggiunge, che tutti a parole sostengono che è meglio cadere da fedeli che vincere da traditori; ma questo, constata amaramente, è detto solo perché altrimenti si invidierebbe il vincitore, e gli uomini in verità preferiscono compatire che invidiare. Anche sotto questo aspetto dunque, la difesa di un valore non è fatta né con sincerità né con disinteresse. Tanto è vero che chi si mantiene fedele e si attiene ad un codice di nobile eticità, nel momento in cui per questa sua fedeltà perde tutto, non trova soccorso e difesa pronti da parte degli altri, ma solo elogi di forma, a parole, senza una effettiva e concreta solidarietà. Restare fedeli contro i propri interessi risulta così una pratica frutto o di ostinazione o di mancanza di decisione, una illusione con cui consolarsi nel momento in cui si è caduti. L’ipocrisia etica altrui allora, elevata a generale regola di comportamento consente a Guntigi di autoassolversi e di giustificarsi. Anzi, agli ipotetici avversari della sua scelta, ha buon gioco nel rinfacciare che, se è il coraggio nell’affrontare il pericolo ciò che essi ammirano, ebbene, correre il rischio del tradimento comporta più coraggio che una battaglia in campo aperto.

E il male altrui diventa giustificazione inappellabile per il proprio.